Un poveraccio col vizietto del gioco d’azzardo ha la vita rovinata dopo i disordini in fabbrica repressi nella violenza dai cani del potere liberista e oggi si ritrova a campare di lavoretti dormendo a casa della madre zoppa.
Un dramma, ovvero la normale esistenza del sotto-proletariato urbano contemporaneo, ovvero il ragionato prodotto del sistema liberal-liberista sostenuto da gentaglia buona solo per la frattaglia tipo Carlo Calenda, quel Carlo Calenda che parla sempre come se fosse stocazzo quando invece riesce ad abbindolare solo i poveri cristi intimoriti dalla sua sicumera facilmente cancellabile con un bel papagno piantato in pieno muso.
Seong Gi-hun, questo il nome del poveraccio disoccupato e divorziato, viene avvicinato da un’organizzazione criminale finanziata da miliardari annoiati che non pagano le dovute tasse allo stato che li ha tenuti in vita troppo a lungo e si ritrova in un gioco più grande di lui, ovvero una gigantesca competizione ad eliminazioni cruente tipo Takeshi’s Castle, ovvero una corsa di cavalli umani su cui scommettere milioni di euro.
Parte benino, ma finisce nell’idiozia più completa con l’occhiolino alla seconda stagione all’insegna dei capelli pinkissimi.
Io davvero non mi capacito di quanto la massa non abbia una cultura che vada al di fuori di Orietta Berti e quindi non riesca ad accorgersi, di fronte a questo Squid Game, di tutte le scopiazzature influenze che l’hanno prodotto: dal citato Takeshi’s Castle a Saw (con tanto di finale) passando per tutti i manga giapponesi tipo Battle Royale o As the Gods Will.
Simpatico, sì; un po’ di cacarella in alcuni punti, certo; ma non è il miglior sceneggiato su Netflix, tantomeno il migliore mai visto.
VOTO:
3 papagni
Titolo originale: 오징어 게임
Regia: Hwang Dong-hyuk
Anno: 2021
Durata: 9 episodi da 1 ora
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