Mortal Kombat (1995)

Ogni morta de Papa viene messo in piedi un circo mediatico dal sapore sanguigno chiamato Mortal Kombat attraverso il quale una stirpe di figli di puttana intergalattici tenta di penetrare, oltre al vostro culo, anche il nostro pianeta Terra vincendo uno dopo l’altro scontri sovrumani duelli decisivi che decideranno chi l’armatura indosserà è un torneo micidiale è uno scontro fratricida il più forte dovrà in fine tra tutti trionfar.

Chi sarà mai?
Il porchiddio.

Mortal Kombat (1995)

Pellicola fortunatissima al botteghino che è riuscita a portare sul grande schermo (forse) la prima vera buona trasposizione cinematografico di un videogioco, ben prima di Resident Evil dello stesso regista e con risultati decisamente migliori.

Ritroviamo qui i nostri beneamini beneamati figli di puttana Liu Kang, Johnny Cage, Sonya Blade, Kitana, Scorpion, Reptile, Sub-zero ed uno straordinario Raiden interpretato da un improbabile Christopher Lambert in astinenza da coca che avrebbe fatto bocchini alla stazione dei treni per una dose, tutti quanti bardati come nel videogioco anni ’90 e soprattutto con una storia e un comportamento simili.
Che aderenza alla fonte!

Ovviamente è un film pessimo dal punto di vista contenutistico, ma come recitava quell’erotomane di Sant’Agostino:
MORTAL KOMBAT!!!

VOTO:
2 sant’Agostino e mezzo

Mortal Kombat (1995) voto

Titolo giapponese: モータル・コンバット
Regia: Paul W.S. Anderson
Durata: 1 ora e 41 minuti
Compralo: https://amzn.to/3LYCam4

La storia infinita (1984)

Bastian Balthazar Bux, con un nome così, poteva solo che diventare lo zimbello della scuola.

Se a questo aggiungiamo un padre assente per lavoro e una madre assente per decesso, ecco che il giovine Bastiano tenta il tutto per tutto rifugiandosi fisicamente nella soffitta della scuola e mentalmente in Fantasia, un mondo aldilà dell’immaginazione dove succedono cose assurde, tipo che uno non devo lavorare 40 anni per mangiare e avere un tetto sopra la testa.

Siccome però il nulla di Giorgia Meloni sta invadendo Fantasia portandosi via i diritti acquisiti con un bel colpo di spugna, ecco che Bastian dovrà farsi carico del grande fardello della nostra contemporaneità, mettere finalmente un punto a quella cazzata economica chiamata Liberismo.

La storia infinita (1984)

Famosissimo film fantasioso e brioso che dalla sua ha indubbiamente una grande produzione, con effetti speciali strambi ma certamente memorabili, ma che purtroppo è scritto con i piedi devastati dall’artrite reumatoide.

Senza capo né coda, zeppo di scenette che si susseguono l’una all’altra con soluzione di continuità ruvida come la carta vetrata sulla cappella fresca di tuo padre ed un cane volante che vorrebbero farci credere essere un drago.

Lo scrittore della storia originale non fu molto contento dei numerosi rimaneggiamenti apportati e si espresse con parole molto dure:

Auguro la peste ai produttori.
Mi hanno ignorato.
Quello che mi hanno fatto è una sozzura a livello umano, un tradimento a quello artistico.

La peste non arrivò, però Wolfgang Petersen è morto di cancro al pancreas nell’agosto del 2022 nella sua bella casetta Brentwood, Los Angeles.

VOTO:
3 cani volanti

La storia infinita (1984) voto

Titolo originale: Die unendliche Geschichte
Regia: Wolfgang Petersen
Durata: 1 ora e 42 minuti
Compralo: https://amzn.to/3SibGhl

Princess Mononoke (1997)

E’ la fine del 1500 in Giappone e la magia e gli spiriti che pervadono tutta la natura non sono ancora scomparsi per far posto al mondo degli uomini, qui rappresentato da una città stato specializzata in metallurgia e armi da fuoco governata da una donna risoluta e ambiziosa che ha intenzione di radere al suolo mezza foresta per far posto alle sue manie di grandezza.

In questo scontro epocale che ha poi dato immaginativamente vita al Giappone moderno, si muovono una serie di personaggi ambivalenti che perfettamente rispecchiano l’impossibilità di una riduzione manichea della realtà come invece troppe cucuzze contemporanee si ostinano a fare e pensare: Ashitaka è un giovane guerriero della tribù Emishi, uno degli ultimi prima che questo gruppo etnico fosse spazzato via dagl’imperatori giapponesi, il quale si trova esule dal suo villaggio e ramingo per via di una maledizione che gli ha penetrato il braccio dopo una battaglia furibonda con un dio cinghiale posseduto dal demone della collera visto che era stato scacciato dalle sue terre (dalla città stato di cui sopra) a suon di fucilate a pallettoni nello stomaco; a fargli da speculare contraltare c’è la giovane San, sanguigna ragazza cresciuta dai demoni lupi la quale ha giurato vendetta contro la razza umana per essersi sbarazzata di lei in tenera età; ed infine una platea di spettatori semi-impotenti composta da spiriti ancestrali che sentono vicina la fine dell’epoca magica e cercano di reagire nei modi più disparati, dalla furia cieca di un branco di cinghiali parlanti alla calma serafica di un enorme dio della foresta che dispensa bacini curativi a chiunque si appresti con cuore alla sua fonte.

Come spesso nei film giapponesi, la fine non sarà risolutiva.

Princess Mononoke (1997)

Straordinario film d’animazione che, a dispetto di quello che dice Mereghetti (noto critico cinematografico dai gusti retrogradi ed opportunisti come il suo partito di riferimento), rappresenta senza ombra di dubbio uno degli esempi massimi dello Studio Ghibli e quindi di tutta l’animazione giapponese di stampo artistico con aspirazioni poetiche.

La qualità del tratto e dell’animazione è ai massimi livelli, pare infatti che Miyazachi in persona abbia revisionato uno ad uno tutti i 144mila fotogrammi del film, e la storia, sebbene a tratti confusionaria e contraddittoria per un pubblico occidentale troppo abituato a veder rappresentati i drammi umani con personaggi che incarnano questa o quell’altra virtù come questo o quell’altro male, sempre in contrapposizione (tipico delle società monoteiste) e mai in compenetrazione (come è più proprio per una società animista), la storia dicevo riesce a catturarti dal primo all’ultimo istante.

E quello che più caratterizza positivamente la pellicola è proprio questa riluttanza nel dividere le cose in bianco e nero per abbracciare invece una più logica scala di grigi entro la quale tutti ci posizioniamo e riposizioniamo a seconda dell’argomento in questione: la città metallurgica è infatti sì capace di distruzione e disperazione, ma è anche un faro di progressismo con la buona accoglienza che dà ai reietti e gli ultimi della società (vedi le donne che nella società medievale giapponese valgono poco più dei sassi e i lebbrosi che addirittura custodiscono il segreto della forgiatura delle armi da fuoco); il giovane protagonista Ashitaka divide continuamente, sinceramente e non ambiguamente, le sue premurose attenzioni tra i due fronti della contesa, gli umani con i fucili e gli spiriti della natura con la loro magia; e lo stesso dio della foresta si rivela essere portatore sia di vita che di morte.

Ma in questo marasma di complimenti ed elogi, quello che più mi preme dirvi è il personale risultato linguistico di 9 mesi di convivenza con due spagnole: dios pelícano rey del bosque.

VOTO:
5 re del bosco

Princess Mononoke (1997) voto

Titolo italiano: Principessa Mononoke
Regia: Hayao Miyazaki
Anno: 1997
Durata: 134 minuti

The Cabinet Of Dr. Caligari (1920) [Full Movie HD]

Buy the DVD ➤ http://amzn.to/2jQpV0F
This movie is in public domain.

At a fair in the village of Hostenwall, Dr. Caligari obtains a permit to set up his tent show featuring Cesare the 23 year-old Somnabulist who has slept for 23 years. Francis and his friend Alan visit the popular show and Alan asks Cesare in his trance-like state to tell him his future. Cesare predicts that he will die that night and when Alan is in fact found dead in the morning it seems to be just one of many such crimes recently. Frances is determined to find his friend’s killer, all the more so after Cesare tries to kidnap his fiancée. He follows him to an insane asylum but not all is as it seems.

Director: Robert Wiene
Writers: Carl Mayer (story and screen play by), Hans Janowitz (story and screen play by)
Stars: Werner Krauss, Conrad Veidt, Friedrich Feher

Titolo italiano: Il gabinetto del dottor Caligari
Regia: Robert Wiene
Anno: 1920
Durata: 76 minuti

Stairway to Heaven (1946) [Full Movie HD]

A British wartime aviator who cheats death must argue for his life before a celestial court.

Directors: Michael Powell, Emeric Pressburger
Writers: Michael Powell, Emeric Pressburger
Stars: David Niven, Kim Hunter, Robert Coote

Buy the DVD ➤ http://amzn.to/2s7Vgh8 This movie is in public domain.

Titolo alternativo: A Matter of Life and Death
Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger
Anno: 1946
Durata: 104 minuti

Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re (2003)

Aragorn prende in mano spada e cavallo per dimostrare d’essere un uomo, Legolas conquista il cuore di Gimli, Arwen vuole morire, Sam è sempre più innamorato del suo compare, Gollum pone fine alla sua miserevole esistenza, Saruman si perde le palle, Pippin è un cojone, gli orchi sembrano usciti da un disastro atomico, Sauron precipita e Frodo è sempre più ridicolo.

Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003)
a ridicolo!

Grande epilogo di merda per una trilogia fin troppo sopravvalutata.

Lasciando perdere i 5 finali che uno spera finisca e invece niente prosegue per venti minuti e la noia di una battaglia campale computerizzata che già era triste all’epoca figuriamoci ora, quello che veramente è insopportabile e la continua arroganza da primo piano di una serie inutile di personaggi da telenovela sudamericana i quali sanno solo fare discorsetti pomparoli con ammicco in camera mentre al contempo buttano merda melensa in faccia ai poveri spettatori i quali pensavano di essere andati a vedere un film fantasy-epico e invece si sono ritrovati con un misto tra The Dukes of HazzardThe Bold and the Beautiful.

Mortacci vostra.

VOTO:
2 più froci de Los Angeles

Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) voto

Titolo originale: The Lord of the Rings: The Return of the King
Regia: Peter Jackson
Anno: 2003
Durata: 201 min | 250 min (Extended Edition)

Il Signore degli Anelli – Le due torri (2002)

Dopo averli visti separare alla fine del primo capitolo, i membri della compagnia dell’anello proseguono il loro tortuoso cammino verso Mordor e l’agognata distruzione del malefico gioiello nel vulcano Doom.

Frodo e Sam prendono come cane guida lo schizofrenico Gollum che li accompagnerà nella loro luna di miele frocia in mezzo a paludi, montagne e foreste; Aragorn, Gimli e Legolas montano la difesa del regno gitano di Gondor arroccandosi nel trombatorrione del loro orgoglio maschio fascista mentre Pippin e Merry fanno la conoscenza di un nutrito gruppo di alberi parlanti guidati unicamente da vendetta e menefreghismo.

Il Signore degli Anelli – Le due torri (2002)
Ma io ho il cuore nero e me ne frego e sputo in faccia al mondo intero

Grossa delusione in casa un Film una Recensione.
Ricordo ancora vividamente quanto ardore la visione al cinema di questo film aveva provocato in me: frecce mostri bombe zin zin sbim avevano artificialmente accelerato i miei neuroni con una dosa testosterodica da ventennio fascista; ora invece, forse munito di una maggiore senilità e una sicuramente più ampia cultura, mi ritrovo letteralmente basito di fronte a un film di merda come questo.

Molti effetti speciali sono invecchiati male e mostrano la corda nella loro sfrontatezza dovuta all’eccitamento noviziale dell’epoca; i forzatissimi siparietti comici (al cazzo) alla Vanzina tra Gimli e Legolas qui trovano purtroppo un più ampio spazio così da catturare un più ampio pubblico di beoti; e la pervasiva e disturbante retorica fascista di questi regnanti con la terza elementare che si gasano quando sentono l’odore del sangue e manca poco se lo sturino a vicenda per le scale del castello mentre i soliti mostri del sonno della loro ragione battono alle porte beh, francamente m’hanno belli che rotto i coglioni da circa tre lustri.

VOTO:
2 cojoni

Il Signore degli Anelli – Le due torri (2002) votoTitolo originale: The Lord of the Rings: The Two Towers
Regia: Peter Jackson
Anno: 2002
Durata: 179 minuti

Il Signore degli Anelli – La Compagnia dell’Anello (2001)

Un Anello per domarli, un Anello per trovarli,
Un Anello per ghermirli e nel buio licenziarli.

Il giovane hobbit Frodo deve gettare l’anello maledetto nella lava del monte Fato e spezzare così l’interminabile maledizione di Sauron, servo padrone del male assoluto il quale c’ha una voglia matta de prennese la Terra di mezzo, tipo i criminali che nei telefilm italiani se vojono pija’ tutta Roma.
Ad aiutare il piccolo camminatore, troviamo poi tutta una serie di personaggi improbabili nel loro di dimorfismo genetico che manco dopo un’esplosione atomica o una spruzzata di agente arancio.

Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell'Anello (2001)

Bel film fantasy d’avventura basato sull’omonimo libro der caro Tolkien, questo primo capitolo di una delle trilogie per eccellenza traina perfettamente un carrozzone di costumi, comparse, effetti speciali, trucchi e parrucchi che però risultano sempre affascinanti e sorprendenti.

Si nota quindi la tenacia e lo studio pluriennale che il regista c’ha messo dentro, uno sforzo che forse va via via affievolendosi mano a mano che la serie giunge al triste epilogo finale.

VOTO:
4 camminatori e mezzo

Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell'Anello (2001) voto

Titolo originale: The Lord of the Rings: The Fellowship of the Ring
Regia: Peter Jackson
Ano: 2001
Durata: 178 min, 208 min (v.e.) | 208 min (DVD Special v.e.)

Best Worst Movie (2009)

C’era una volta una cacata di film chiamata Troll 2, scoreggia tricolore girata in terra americana da Claudio Fragasso.
19 anni dopo, Michael Stephenson, il bambino protagonista di quell’agonia cinematografica, ha cavalcato l’onda dello status di cult movie che Troll 2 andava assumendo e ha tentato di dargli un seguito emozionale con questo documentario dolciamaro chiamato Best Worst Movie.

Il protagonista di questo film è George Hardy, il biondo padre in Troll 2, oggi rispettato dentista di una tranquilla cittadina campagnola dell’Alabama; guidati da questo Virgilio sempre sorridente e dal cuore d’oro, letteralmente amato dai vicini e dai pazienti, che per halloween si traveste da fatina obesa sui rollerblade per intrattenere i suoi compaesani, ci addentriamo tra le pieghe lasciate insolute di una pellicola che secondo ogni logica avrebbe dovuto cadere nel dimenticatoio molto tempo fa.

Best Worst Movie (2009)

Scopriamo quindi che ogni personaggio è andato avanti con la sua vita più o meno fortunatamente: la madre ad esempio è diventata pazza, soffre di manie di persecuzione e ha allucinazioni uditive, mentre il padrone della drogheria (già matto all’epoca di Troll 2) è migliorato tanto da poter vivere da solo, con i suoi gatti e i suoi orsi di peluche alti un metro e mezzo.
Tra una convention andata deserta e delle proiezioni a Los Angeles col tutto esaurito, scopriamo pezzo a pezzo cosa si cela dietro i volti bidimensionali di un film italiano da due lire e ci si trova investiti di un interesse inspiegabile all’esterno.
Specialmente George, affermato professionista pieno di un genuino positivismo americano il quale avrebbe sempre voluto fare l’attore, riesce a non far distogliere lo sguardo per più di un manciata di secondi e risulta l’elemento centrale perfetto di una storia ciclica che parte con un suo dolce sorriso e finisce con un altro.

Nonostante l’operazione nostalgia vada a segno e la soddisfazione pruriginosa di un pubblico troppo abituato a sapere tutto di tutti sia soddisfatta, la cosa meglio riuscita di questo Best Worst Movie è però l’inconsapevole analisi sociologica di vari esemplari d’esseri umani per molte ragioni così diversi e che pure si sono ritrovati assieme per 3 settimane nel lontano 1990 nella campagna dello Utah per creare un’artefatto umano chiamato Troll 2.

VOTO:
4 artefatti umani

Best Worst Movie (2009) voto

Titolo originale: Best Worst Movie
Regia: Michael Stephenson
Anno: 2009
Durata: 93 minuti

Dark Crystal (1982)

Sul pianeta Thra sono passati mille anni da quando il grande e misterioso Dark Crystal è stato spezzato e i maligni Skeksis temono la profezia secondo la quale, alla congiunzione dei tre soli, un Gelfling riporterà il pezzo mancante e riparerà il cristallo ponendo fine al loro impero.
Alla morte del suo maestro della razza Mystics, Jen (l’ultimo dei Gelfling) viene a conoscenza del suo eroico destino e s’imbarca quindi in un viaggio che lo porterà al castello degli Skeksis e alla consapevolezza d’essere diventato adulto.

the-dark-crystal
e questo è come si disegna una fica, mio caro Jen

Straordinario film per ragazzi dal cuore coraggioso, questo The Dark Crystal è stato uno sforzo produttivo senza precedenti: decine di pupazzi e animatronics su set fantastici e ricchi di dettagli hanno dato vita ad un mondo magico popolato da creature incredibili e fiabesche.
Prima d’allora non s’era mai visto qualcosa del genere sul grande schermo: Jim Henson (autore, finanziatore e regista del progetto) era conosciuto per il suo lavoro in serie televisive come Sesame Street e The Muppet Show, roba eccellente ma per un pubblico pre-adolescenziale; qui invece dominano i toni cupi e un generale senso di alienazione che troverà compimento nel successivo e migliore Labyrinth.
Purtroppo a far da contraltare all’eccellente e rivoluzionario reparto tecnico c’è una storia molto convoluta e poco avvincente: si tratta della solita parabola del bambino che, alla morte del padre, diventa adulto e la conseguente fine giochi fanciulleschi; mischiato a questo però abbiamo una caterva di cianfrusaglia New Age (il film si basa molto sui testi mistici di una spiritualista americana, The Seth Material) che rendono il film abbastanza datato (oltre che insensato).
Un peccato, perché visivamente The Dark Crystal è una cosa fantastica (anche per gli standard moderni) e con qualche accorgimento poteva essere veramente un capolavoro; invece risulta appesantito da un ritmo eccessivamente lento, un montaggio molto elementare e un messaggio sì potivivo ma molto confuso e contraddittorio (un po’ come la religione).

VOTO:
3 David Bowie travestiti da re degli Elfi

Titolo originale: The Dark Crystal
Regia: Jim Henson & Frank Oz
Anno: 1982
Durata: 93 minuti

Il racconto dei racconti (2015)

Madonna che cazzata.
No, sul serio: questo Racconto dei racconti di Matteo Garrone è sinceramente imbarazzante; dalla regia alla sceneggiatura, dal montaggio alla recitazione, dal macGuffin alla morale.
E questa volta, invece della solita sequela di insulti (meritatissimi) al regista e chi gli ha dato i soldi per fare questo sgorbio chiamato film, voglio invece spiegare per bene perché non funziona, che sennò poi pare che tiro giù solo bestemmie.
Si parte.

Il-racconto-dei-racconti-1
nudo femminile prebuscenziale: sembra i film non funzionino più senza

La Storia:

Tratto dal libro seicentesco di Giambattista Basile Lu cuntu de li cunti, una raccolta in napoletano di fiabe popolari dentro una cornice narrativa unificante (alla Decamerone per intenderci), il film decide bene di escludere le novelle più famose come Cenerentola o La bella addormentata nel bosco, per dare spazio a 3 inascoltate fiabe della tradizione popolare antica: La regina, La pulce e Le due vecchie.
La prima racconta di una regina sterile che, pur di avere un figlio, decide di ascoltare un oscuro figuro innominato il quale suggerisce di farle mangiare il cuore di un drago marino cucinato da una vergine; il secondo episodio vede un re appassionarsi tanto alla sua gigantesca pulce ammaestrata da dimenticare i suoi doveri di padre verso la sua unica figlia, la quale viene data in sposa ad un orco delle montagne; la terza fiaba invece gira intorno alle pazze voglie sessuali di un re alle prese con la sua nuova bellissima moglie, una vecchia bacucca dalle sembianze giovanili per merito di un latte materno magico datole da una vagabonda nella foresta.
Le tre storie sono poi collegate per collocazione geografica (tutti e tre i regni confinano) e per un personaggio minore ricorrente, un saltimbanco triste e muto, una sorta di Rosencrantz e Guildenstern del mezzogiorno.
Costui è…

il-racconto-dei-racconti-2
Massimo Ceccherini

Non sto scherzando: Ceccherini recita (parolone) ne Il racconto dei racconti ed è anche l’unico motivo buono per vedere questo film.
Le sue apparizioni scuotono talmente l’animo da provocare risate incontrollabili e qualsiasi sia l’azione da lui compiuta risulta un capolavoro involontario: fa ridere quando dice <Ué Ué> in napoletano mentre fa finta di eseguire numeri circensi, fa ridere mentre dà delle inutili pacche sulle spalle ad Alba Rohrwacher e fa riderissimo quando l’orco di cui sopra lo ammazza con un cazzotto in testa alla Bud Spencer.
Guarda, è riuscito a farmi scoppiare pure quando lo inquadrano per 3 secondi (e ripeto 3…una cifra) mentre è steso a terra morto, con il sangue che gli esce dalla fronte.

Il resto del film invece non riesce a reggersi sulle sue gambe e annoia parecchio sia il pubblico intellettuale sia quello da popcorn perché ha tentato invano di fondere fantasy, orrore e poetica cercando di dare inutilmente giustizia alle tetre fiabe a cui è ispirato.
Il risultato è un pappone senza ritmo, crescendi emotivi e una suddivisione dell’arco narrativo, tutti elementi invece indispensabili e tipici della tradizione occidentale (sembra più ispirato alla mitologia indiana che al teatro greco).

Qualche anno fa ci fu una serie televisiva chiamata Fantaghirò con cavalieri mostri e maghi; beh, lì questo giochetto era riuscito molto meglio…e ho detto tutto.

Gli Attori:

Presi singolarmente tutti gli attori sarebbero di un certo spessore, fatto sta che qui recitano letteralmente da cani.
Forse è la poca dimestichezza di Garrone con la lingua inglese che lo ha lasciato fuori dal suo ruolo di regista e quindi garante di una continuità stilistica ed una minima coerenza dei generi, forse è che girava molta droga sul set, il risultato è però un’accozzaglia di accenti inglesi senza una ragione logica (madri messicane, padri americani della costa est e figli londinesi…), recitazioni tipo la Rohrwacher col suo inglese da cagna e il tono monocorde ed un generale senso di scollamento tra le parti, come se ognuno ripetesse a pappagallo le sue battute senza preoccuparsi di entrare in interazione emozionale con gli altri attori della scena.
Certo, le poche linee di dialogo (tra l’altro spesso superflue e fuori luogo) e il sovraffollamento di parti senza un minimo spessore o un approfondimento di sceneggiatura non devono aver aiutato gli interpreti, ma non si può assolutamente avere un livello tale di incomunicabilità emotiva tra personaggi e pubblico.

il-racconto-dei-racconti-3
foto vera: spettatore perplesso mentre guarda Ceccherini fare Ué Ué

Il Montaggio:

Arriviamo alla parte forse più dolente, quella che salta immediatamente all’occhio ad un addetto al settore, quella che fa gridare al dilettantesco con le mani a conchetta come Tarzan.
Io dico, va bene che gli enti turistici locali hanno sicuramente finanziato il film e messo a disposizione spazi altrimenti inaccessibili e quindi si deve ripagare il favore con vedute paesaggistiche italiane che invoglino i turisti stranieri a portare i loro dindini sonanti nelle povere casse nostrane, va bene pure che ai babbioni stranieri (specialmente americani, giapponesi e russi) i castelli e le foreste e i paesini montani e i ruderi e gli animali italici possono far gola e quindi vanno usati per intrattenere.
Va bene tutto…ma non si possono avere 20 establishing shots di Castel del Monte e altri 20 del Castello di Roccascalegna.
E’ ripetitivo, è controproducente, è noioso, e soprattutto è stupido perché pure il popolare adagio recita “il troppo stroppia”.
Qui il montatore è stato talmente cane da usare OGNI volta queste belle vedute paesaggistiche da acquerello seicentesco (“bravo” Garrone, che poetica…) con nessuno scopo se non quello di aiutare il raccordo tra sequenze, e cioè: per minimizzare il trauma visivo del passaggio repentino da una scena in un bosco ad una a corte, si è deciso di usare tutte le sante volte un’inquadratura di intermezzo (in genere un castello) che faccia da passaggio intermedio tra le due ed aiuti a stabilire le coordinate geografiche..
Questa è una tecnica base, giusta in teoria e che viene insegnata in tutte le scuole di cinema; però per grazia di dio poi tutti imparano che le regole si possono e si devono infrangere se non si vuole scadere nel didascalico, nel compitino da quarta elementare.
Basti pensare all’uso delle transizioni creative in Star Wars, uno dei grandissimi elementi di spessore propri del film futur-fantasy per eccellenza.
Purtroppo Il racconto dei racconti casca in pieno nelle trappole per dilettanti e il risultato è un incredibile rallentamento dell’azione (comunque inesistente) e la sensazione di assistere più ad uno spettacolo di burattini che ad un dramma in quattro parti; peccato, perché il montatore Marco Spoletini ha firmato bei film tipo il capolavoro dimenticato Velocità massima, di cui un giorno farò la recensione.

La Scenografia:

Nonostante l’incredibile occasione che Garrone ha avuto nel poter filmare in bellissime locations come Castel del Monte o Castello di Donnafugata, sembra però si sia dimenticato di arredare le scene.
Sapete…un particolare da nulla.
Tipo che stai guardando un re seduto su un trono bianco di marmo con la sua corona e i mantelli e gli invitati e le tuniche e le perle e Ceccherini che fa il giullare uè ué uè e poi intorno a tutto questo c’è il nulla cosmico: le pareti sono nude, spoglie persino dell’intonaco (si pensi che in Africa o in India anche le capanne dei poveracci hanno un impasto di fango e merda a coprire le pareti), e c’è quella sensazione di assistere ad una recita promossa dell’ente turismo e diretta da un regista omosessuale che si è trasferito a Londra perché a Ragusa lo pigliavano tutti per il culo ma ora lui è tornato ricco e spietato e dentro di sé non si sente più quella timida femmenella presa a calci in culo per le strade del paese il giorno prima della processione della Madonna locale.
Avete presente no? Lo Zeffirelli type.

il-racconto-dei-racconti-3
incoronamento di una regina: due drappi sul muro e un tappetino comprato da Irkam al centro commerciale

Gli effetti speciali:

Una lancia va sì spezzata per lo sforzo produttivo e la ricercatezza nell’uso di effetti speciali pratici: il drago e la pulce in gommapiuma e vetroresina sono reali e appaiono come reali, gli attori possono vederli e interagire con loro in un modo altrimenti impossibile se fossero stati fatti col computer, e questo è un bene.
L’enorme cuore pulsante del mostro marino ha un suo peso che poggia realmente sulle mani dell’attore, questo fa sì che la sua interpretazione ne tragga vantaggio, e posso dire con assoluta certezza quanto questa scelta, seppur costosa agli occhi dei finanziatori, sia totalmente legittimata ai fini della storia fantastica che si va raccontando.
Anche il truppo e parrucco dell’orco e delle due vecchie viaggia su alti livelli e tutto questo non fa altro che dimostrare quanto il cinema italiano abbia ancora molto da mostrare al resto del mondo.
Tutti ci ricordiamo degli splendidi effetti speciali in film come La storia infinita o Labyrinth, meraviglie fatte con le mani e con l’ingegno, e Il racconto dei racconti si inserisce perfettamente in questo canone più tradizionalista.

E allora cosa c’è che non va?
Beh, non va che questi effetti siano gettati lì in mezzo solo perché la fiaba originale ne fa menzione: non basta la presenza nel materiale originario per giustificare una scelta cinematografica; deve esserci una specifica esigenza narrativa dietro.
Prendo ad esempio le due vecchie del terzo racconto per spiegare meglio quello che intendo: Garrone ha scelto due giovani attrici e le ha nascoste sotto una caterva di trucco, pelle finta e parrucche argentate invece di dare la parte a due vere anziane.
Perché?
L’occhio umano è uno strumento sofisticatissimo al servizio del nostro cervello e molto difficilmente si può ingannare questa meraviglia evoluzionistica, tant’è che, nonostante l’ottimo lavoro del reparto trucco, non ho creduto neanche per un secondo che le due donne fossero veramente delle vecchie.
E questo in sé non è un problema: Orson Welles in Citizen Kane recita per metà film col trucco addosso, e va benissimo.
Quello che contesto io è “perché”? C’è un’esigenza specifica per correre il rischio di estraniare il pubblico mettendo una giovane dentro a un costume da vecchia?
Un certo tipo di critica ignorante (filmicamente parlando) potrebbe sostenere che questa scelta è stata voluta per avere una continuità interpretativa, per permettere alla stessa attrice di proseguire la sua parabola emotiva una volta che Dora (una delle due anziane) si trasforma magicamente in una bellissima modella da passerella milanese.
Per i motivi di cui sopra, se si fosse optato per una scelta realistica con il casting, lo spettatore avrebbe sentito uno scollamento tra la prima attrice e la seconda e quindi si è andati con la giovine truccata da vecchia.
…beh, vi svelo un segreto: sono comunque due attrici diverse.
La vecchia e la giovane non sono la stessa attrice, con e senza trucco; sono due diverse ragazze.
E perché? Facile: perché la prima sa recitare ma non è una modella, mentre la seconda ha quel bel culo che serve ad attirare il pubblico becero da Canale 5.
Ci troviamo quindi con una grossa contraddizione totalmente ingiustificata: da una parte si sceglie di far interpretare il ruolo di una vecchia ad un’attrice giovane senza un reale motivo e poi, quando la storia richiederebbe l’attrice di smettere i panni della megera, la si sostituisce con un’altra interprete che è stata scelta unicamente per le sue doti fisiche.
Perché?
Perché?
Perché?

il-raccont-dei-racconti-4
boh…l’importante è che sia anoressica!

La morale politica:

Le fiabe popolari sono un genere che è nato praticamente con la notte dei tempi: fin dall’antichità, coi primi ominidi radunati attorno al fuoco nelle lande desolate dell’Africa preistorica, si trovava conforto ed intrattenimento nel raccontarsi storie fantastiche per farsi coraggio in una vita altrimenti breve e piena di merda come la scala di una pollaio.
I soggetti di questi racconti erano spesso eroi ed eroine che rompevano coi luoghi comuni, erano personaggi che andavano oltre l’umanamente possibile per raggiungere un’eternità altrimenti negata ai comuni mortali.
Era anche un modo per insegnare dei semplici principi morali, delle regole di condotta che avrebbero aiutato i membri delle tribù a vivere in armonia.
Certo, c’erano mostri leggendari e riti magici e un sacco di stronzate che oggi sappiamo con certezza essere semplice frutto della fantasia di questi primi narratori, ma erano storie belle e facevano sognare quella maggioranza silenziosa il cui unico scopo all’interno di queste prime comunità era scuoiare le pelli, fare i vasetti di terracotta e cucinare stufati di gazzella.
Spesso i protagonisti delle fiabe più famose erano gente comune che si trovava loro malgrado in situazioni fuori dal comune, e questo regalava una speranza (seppur vana) a tutti quelli che vivevano in condizioni di difficoltà.
Storie come Cenerentola o L’ammazza giganti o Hansel e Gretel o Pinocchio parlavano di poveracci, di disgraziati vessati per il solo fatto d’essere nati nella classe sociale sbagliata, e quindi la gente ci si rispecchiava, parteggiava per loro perché in loro vedeva una sorta di rivalsa personale verso le proprie insoddisfazioni quotidiane.
Questo film invece prende un’altra strada e decide di mostrarci le pompose inutili vite dei potenti, dei re e le regine, dei principi viziati senza un cazzo da fare tutto il giorno, e quando c’è la ghiotta opportunità di raccontare cosa passa per la testa di un povero (tipo le due vecchie che di lavoro fanno le tintore e quindi hanno le mani slabbrate dai bagni caldi con agenti chimici irritanti) ecco che tutto si riduce alla semplice aspirazione di salita sociale verso la classe nobiliare; sembra che l’unico sogno delle classi subalterne sia di poter entrare a far parte di quelle superiori, di essere finalmente ritenuti parte di un mondo a loro precluso.
Tutto questo anche quando non c’è alcuna logica, e faccio un esempio: una delle due vecchie riesce con l’inganno a scopare il suo re; quando però il monarca si accorge di aver ficcato il suo reale uccello dentro la vecchia fregna di una povera tintora, pensa bene di chiamare le guardie per farla scaraventare dalla finestra giù per un precipizio di 100 metri.
Sapete come sono i ricchi, no? Un po’ impulsivi…
Quando però la vecchia si salva e viene tramutata in giovine modella, la prima cosa che fa è tornare a letto col re e farsi sposare, anche a costo di rompere i rapporti con l’altra vecchia, sua sorella.
Ora, io dico: va bene che per una poveraccia diventare una regina è sicuramente un’occasione d’oro, ma se uno cerca di ucciderti fiondandoti giù per un burrone per il solo fatto di essere anziana, allora come puoi tornare nel suo letto dopo neanche un paio d’ore?
No, sul serio: è assurdo, anche per un film fantastico.
L’effetto però che produce una scelta del genere è quello di instillare nelle giovani menti di tante ragazze adolescenti il pericolosissimo concetto che “Parigi val bene una messa” e che quindi i soldi sono la cosa più importante in questo mondo.
Bella morale eh?
E lo so che tanti critici non si preoccupano di questo aspetto perché vengono da una scuola di pensiero diversa dalla mia, anzi per la precisione non vengono da nessuna scuola di pensiero se non quella di farsi i cazzi propri a questo mondo che così si campa meglio, ma allora non tentate di farvi passare per intellettuali con una credibilità accademica.
Voi a scuola non ci siete andati, no; voi stavate al baretto con gli amici vostri a farvi i caffettini mentre io andavo a vedere Kubrick.
Sarà una dura verità, ma fatto è che questa roba si chiama “critica cinematografica” e quindi si suppone che l’arte la si osservi secondo una certa lente analitica che ne svisceri sentimenti e intenti; non ci si improvvisa critici, ma lo si diventa con tanto studio e parecchio spirito d’osservazione.

Conclusione:

Il cinema italiano è stato dichiarato morto a più riprese da 30 anni a questa parte, spesso a ragion veduta.
I grandi autori del passato sono scomparsi e con loro è andato un modo di fare cinema che esprimeva delle precise filosofie di vita: dal catto-comunismo di Pasolini al borghesismo di Antonioni, dal socialismo di De Sica all’anarco-capitalismo di Fellini, ogni modo di vedere il mondo aveva una ragione d’essere fintantoché l’artista fosse mosso dalla propria coscienza.

Oggi invece troppo spesso gli autori sono semplici esecutori, dei tecnici, a volte molto preparati, che mettono in scena un carosello sterile su cui fanno salire ignari cittadini alla ricerca di un modo come un altro per distrarsi.
I nostri antenati si raccontavano le storie per sognare e stimolare quindi la  loro fantasia che avrebbe poi creato le innumerevoli meraviglie che si sono realizzate su questo pianeta; gli uomini e le donne di oggi invece sono seduti davanti a un fuoco dal quale ogni tanto parte una scintilla accompagnata da un crepitio.
Non è arte, è acqua che fugge dalle crepe del legno.

VOTO:
1 Homo Erectus e mezzo

Il-racconto-dei-racconti-Voto

Titolo originale: Tale of Tales
Regia: Matteo Garrone
Anno: 2015
Durata: 125 minuti

Il labirinto del fauno (2006)

La Spagna di inizio 20° secolo era una terra di re pezzenti, in grave crisi economica e strutturale: la maggior parte della popolazione viveva in semi-povertà, i latifondisti governavano le poche terre coltivabili con pugno di ferro e metodi medievali, c’era la monarchia e il potere ecclesiastico permeava ogni aspetto della società.
Insomma, era come l’Italia di oggi.

Alle elezioni di aprile del 1931 i socialisti e i liberali repubblicani vinsero tutte le provincie, rendendo di fatto la monarchia obsoleta e indesiderata; il re scappò in esilio e si introdusse la nuova costituzione della neonata seconda repubblica spagnola.
Tra le varie riforme introdotte dal neo governo ci fu il suffraggio universale, la libertà di parola e di associazionismo, la separazione tra stato-chiesa e il divorzio.
Insomma, un formidabile passo avanti nel progresso… che però fece incazzare di brutto fascisti, nazionalisti, preti, nobili, monarchici e retrogradi teste di cazzo in generale.

Ecco quindi che tra il 1936 e il 1939 ci fu la cosiddetta Guerra Civile Spagnola che vide opporsi i Nazionalisti (di Franco) e i Repubblicani: i primi supportati da Portogallo, Germania nazista e Italia fascista; i secondi da Unione sovietica, Messico e associazioni di sinistra di tutto il mondo.
Tra i combattenti repubblicani più famosi ci furono Ernest Hemingway che dall’esperienza tirò fuori Per chi suona la campana e George Orwell che scrisse Omaggio alla Catalogna.
La guerra finì purtroppo con la vittoria dei fascisti e per i successivi 36 anni la Spagna fu governata da un manipolo di inetti trogloditi dalla mentalità ristretta; nonostante ciò nessuna potenza mondiale si è mai lamentata del fatto che ci fosse una nazione fascista in Europa fino al 1975.
Così, tanto per ricordare la faccia da culo dei governi mondiali quando parlano di stati canaglia e regimi totalitari.

Ora, detto tutto ciò, possiamo inquadrare meglio il periodo storico che Guillermo ha scelto per ambientare la sua favola fantasy dark più famosa: la storia di Ofelia, una ragazzina alle prese con il Capitano Vidal (il patrigno fascista) e le creature magiche che vivono nella sua testa.

Il labirinto del fauno (2006)

La giovane Ofelia è confinata con la madre incinta su una montagna spagnola dentro l’avamposto militare del Capitano Vidal, il suo nuovo fascistissimo patrigno.

Mentre Vidal dà la caccia ai partigiani comunisti, Ofelia esplora i boschi circostanti piena di curiosità e meraviglia ed un giorno si imbatte nel fauno, una creatura mitologica figlia della natura che riconosce in lei la principessa del mondo sotterraneo scomparsa anni prima.
La storia procede su binari paralleli: da una parte Ofelia cerca l’uscita dal labirintico mistero riguardante il suo passato, dall’altra la Spagna cerca di uscire dal medioevo culturale imposto dai nazionalisti.

Chi ce la farà?

Questa favola politica dai toni scuri e molto adulta fu un successo mondiale… e a ben ragione.
Gli effetti speciali sono bellissimi e in gran parte reali, ore e ore di trucco e animatronics hanno dato vita a dei personaggi affascinanti ed emozionanti; le interpretazioni sono in tono e solo in parte eccessive, d’altronde quando si ha che fare con una favola è anche giusto calcare un po’ la mano; e la storia è uno stranissimo miscuglio di generi e sensazioni che lascia una forte carica politica antifascista nello spettatore senza però pregiudicare tutta la parte immaginativa e più fanciullesca.

Guillermo del Toro si riconferma un regista capace e soprattutto uno che se ne frega delle regole cinematografiche: i fascisti sono cattivi, i comunisti sono martiri e le bambine muoiono come stronze.

Ops!

VOTO:
4 Guernica e mezza

Il labirinto del fauno (2006) voto

Titolo originale: El laberinto del fauno
Regia: Guillermo del Toro
Anno: 2006
Durata: 118 minuti