Biopic parodia sul famoso musicista parodico chiamato Alfred Matthew Yankovic, o più romanticamente “Weird Al”.
Tra rocambolesche ed effervescenti situazioni al limite dell’assurdo ed una carrellata di comparsate più o meno famose senza un vero capo né coda, il film si presenta per la verità come una fasulla reinvenzione a fini comici della prima parte di carriera di Weird Al.
Non è un capolavoro e non fa morire dal ridere, ma la simpatia del protagonista, interpretato da quel tappo di Harry Potter in forma fisica smagliante e con una piccola fica di peli sul petto che levati di torno, e il gioco a tirarla sempre fuori dal campo ne fanno un qualcosa di buono.
VOTO: 3 piccole fiche
Titolo originale: Weird: The Al Yankovic Story (2022) Regia: Eric Appel Durata: Compralo: https://amzn.to/40vZWeP
Storia di una ragazzina che vuole affrontare il lungo e sofferto percorso che la condurrà a diventare una maiko, il gradino precedente alla geisha, nonostante la sua incipiente goffagine e il suo accento burino.
A darle manforte, nel senso di forti manate in volto, ci saranno la proprietaria della casa del tè in cui sta facendo apprendistato, le colleghe geishe e un professore porcellino con una voglia matta di ficcare le sue affusolate mani da pervertito dentro le fresche mutandine di una minorenne.
Il delizioso distretto storico di Kyoto fa da cornice ad una reinterpretazione di My Fair Lady (mi dicono dalla regia) che azzecca il tono e la forma del genere musicale per anime dolci.
Non è un capolavoro e non mi strapperò i capelli, ma risulta piuttosto interessante per dare un’occhiata dentro il misterioso mondo dell’antica (e in via d’estinzione) arte dell’intrattenitrice tradizionale giapponese.
VOTO: 3 capelli
Titolo: 舞妓はレディ – Maiko wa Lady Regia: Masayuki Suo Anno: 2014 Durata: 135 minuti
E’ una stronza che vuole imparare a ballare bene, ma non vuole ammetterlo a sé stessa e quindi si mangia la vita in ufficio nascondendo la sua solitudine interiore dietro diagrammi e riunioni aziendali con un gruppo di uomini attempati che non sanno cosa sia muoversi e divertirsi. Poveri stolti.
Fortuna che a rimescolare le carte in tavola arriva un vecchio imbonitore con la dentiera, una giacchetta sgargiulla che levati di torno e una sciatalgia incipiente che, grazie alla sua magia da 4 soldi, degli anellini da 50 yen e 100 grammi di coca tagliata male, trasformerà la stronza in un pericolo ambulante ballerino, domabile unicamente con una sana e vecchia dose di ceffoni.
Una pena.
Una pena di film che io maledico il giorno che mi hanno spinto a vedere questa cacata immane disegnata a fior di pennello sanguinolento per le donnette giapponesi che sognano il principe azzurro, ma poi lo rifiutano perché sono donne indipendenti che comprano le loro scarpette rosse di merda su Amazon; il tutto mentre si masturbano con un cocomero fradicio.
Vi odio. Vi odio tutti.
VOTO: 1 cocomero e mezzo
Titolo originale: ダンスウィズミー Dansu Wizu Mi Regia: Shinobu Yaguchi Anno: 2019 Durata: 103 minuti
Un koala truffaldino che meriterebbe d’essere preso per le grande orecchie e messo tra le fiamme in Australia a piangere lacrime amare per il resto della sua breve vita è il protagonista di una storia “educativa” per i più piccini e per gli sventurati adulti costretti loro malgrado a fare da statuine accompagnatorie ai piccoli pargoli piantagrane.
La storia è semplice: ‘sto koala decide di mettere su un concorso musicale con ricco premio finale (che non possiede) per tentare un ultimo estremo salvataggio del teatro che per due soldi al mercato suo padre comprò. In questa sua impresa degna di Canale 5, sarà aiutato da un drappello di aspiranti famosi che staranno a rappresentare ogni possibile segmento demografico del pubblico pagante. E credetemi, di pubblico pagante ce n’è stato ce n’è e ce ne sarà.
Ma che ve lo dico a fare?
Lo sapete già:
fa cacare.
VOTO: 2 koala
Titolo rumeno: Hai sa cantam! Regia: Garth Jennings Anno: 2016 Durata: 108 minuti
Nell’upper west side di Manhattan ci sono tanti giovani poveracci americani che si fanno la guerra al campo di pallacanestro per il dominio di quelle loro strade di merda sporche e malfamate.
I Jets e gli Sharks, due gang rivali d’immigrati, si contendono il campetto a suon di ceffoni e piroette piroclastiche alzando ogni giorno il tiro dell’ammissibile: schiaffi, calci, pietre, cinghie, coltelli, pistole… la corsa agli armamenti sembra non fermarsi mai e solo l’AMMORE duro e puro di due ragazzi con i genitali in fiamme potrà (forse) stoppare l’escalation di morte.
che belle mani bell’uomo
West Side Story è un celebre musical, prima teatrale e poi cinematografico, vecchio e stravecchio… eppure bello e strabello.
Pieno zeppo di ballerini che danzano in maniera così leggiadra da farti dimenticare per un attimo che esistono le carestie e gli stupri di guerra e tutto incentrato sulla guerra civile che le minoranze etniche (polacchi e portoricani nella fattispecie) si facevano all’ombra dell’ultimo sole del capitalismo yankee, questa celebre opera cinematografica vale certamente almeno una visione, sia dei fan del genere che di chi come me vuole semplicemente provare il brivido di farsi venire la voglia di un plié.
VOTO: 4 plié e mezzo
Titolo brasiliano: Amor, Sublime Amor Regia: Jerome Robbins, Robert Wise Anno: 1961 Durata: 153 minuti
Per 8 mesi il giornalista britannico Martin Bashir ha seguito Michael Jackson in giro per il mondo armato di camera e faccia da culo. Il risultato è stato questo piccolo documentario, dallo stile candido e dal contenuto abominevole (come Michael Jackson), che nei primi anni 2000 mi fece scoprire le follie dietro la figura mitica della pop star più famosa del pianeta.
L’infanzia negata, gli estenuanti tour, i fratelli che si portavano le fan in stanza d’albergo, la cinghiamattanza del padre, gli insulti e la vergogna per l’acne adolescenziale hanno segnato indelebilmente un bambino dalle incredibili doti artistiche e dall’animo forse troppo docile per sopportare la gabbia da leoni che è lo show business. E crescendo, questo suo rigurgito d’infantilismo negato l’ha spinto a rinchiudersi nel suo grande ranch californiano circondato da giochi, uno scimpanzé chiamato Bubbles, un luna park, animali da zoo, suppellettili kitsch degne del più frocio di Los Angeles e uno stormo di bambini che periodicamente venivano a visitare una sorta di Disneyland drogata e rifatta, empia baldracca riflessa di un uomo che non accettava il corso naturale del tempo.
Indi, se siete in cerca di un viatico per il viaggio esplorativo delle chiappe più invereconde che l’occidente abbia mai visto, siete i ben serviti.
VOTO: 3 Bubbles e mezzo
Titolo completo: Living with Michael Jackson: A Tonight Special Regia: Julie Shaw Anno: 2003 Durata: 110minuti
La vita è fatta di soldi, birra, cocaina, isole caraibiche, Sole, musica demmerda e tanta, ma tanta fregna.
O almeno: questo è quello che pensa il cittadino medio, sia esso italiano o americano; un essere tanto insulso quanto in realtà fondamentale al sostentamento di una società fortemente piramidale alla base della quale serve una moltitudine di persone indecentemente idiote sempre pronte a farsi carico della maggioranza del lavoro necessario al sostentamento dei pochi elevati i quali se ne fottono al cazzo dei soldi, della birra, della cocaina, delle isole caraibiche, del Sole, della musica demmerda e della fregna.
Perché comandare è meglio che fottere.
Tutto questo bel concetto mi è servito per introdurre quello che viene messo in scena in codesto documentario sul Fyre Festival del 2017. Un evento super esclusivo e super costoso su un’isola delle Bahamas che ha finito per non avvenire mai, tra la confusione di chi aveva sborsato migliaia di dollari per andare a vedere i cazzo di blink-182 e chi i soldi se li è intascati senza riuscire a mettere in piedi la baracca.
Interessante piccolo documentario su un qualcosa che non poteva fregarmene di meno, un concertone per fighetti del cazzo senza cervello organizzato da un paio di truffatori col sorriso falso stampato sulle labbra, e che invece mi ha tenuto abbastanza interessato per tutta la sua durata. Questo a dimostrazione del fatto che a volte non importa tanto il cosa, ma come lo si racconta.
Consigliato a chi vuole apparire intellettuale guardando un documentario nel quale però si vedono molte sbarbatelle con dei fisici mozzafiato che tu ti domandi cosa ci voglia per averne una così e poi ti rispondi subito con il passepartout della vita: i sordi.
VOTO: 3 intellettuali e mezzo
Titolo completo: Fyre: The Greatest Party That Never Happened Regia: Chris Smith Anno: 2019 Durata: 97 minuti
Il Giappone del 1997 è una terra apparentemente colma di pietosi maschi infantili che salivano copiosamente per ragazzine perinealmente imberbi che parlano e si atteggiano da minorenni cerca guai mentre sfoggiano dei seni degni di Moira Orfei.
3 di queste giovani incarnazioni di una società profondamente patriarcale e piramidale con un chiaro problema di apertura sessuale formano un gruppetto musicale j-pop chiamato CHAM! e riscuotono un successo compreso tra il 3 e il 5, su una scala da 1 a 10. Sarà perché l’era dei gruppetti pop costruiti a tavolino è un po’ in declino, sarà perché dio le vuole punire per il fatto d’essere femmine, le CHAM! rischiano l’estinzione e quindi, prima che la nave affondi, una delle componenti si allontana con l’ultima scialuppa per seguire le orme di chiunque abbia frequentato “Il Grande Fratello”, diventare un’attrice.
Mima Kirigoe, questo il nome della giovane traditrice, entra nel cast di una serie tv investigativa dal contenuto un po’ violento e un po’ zozzone che, grazie a delle scene sempre più spinte, dovrebbe farla trasformare da ragazzina perinealmente imberbe a donna perinealmente imberbe. Purtroppo questa sua metamorfosi a luci rosse non viene presa molto bene da qualcuno che prima apre una pagina web dove, fingendosi lei, descrive minuziosamente la giornata di Mima lamentandosi delle pressioni che riceve da chi la circonda, poi le manda delle simpatiche lettere esplosive ed infine comincia a fare fuori in maniera parecchio sanguinolenta quelli che coadiuvano l’aspirante attrice nella sua trasformazione dal gusto retro amaro.
Questo turbine di eventi, emozioni e spaventi faranno precipitare la povera Mima dentro un turbine di follia incontrollabile che non le farà più distinguere la realtà dalla fantasia mentre il pubblico comincerà a domandarsi se si è ricordato di cancellare la cronologia del browser web.
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Esordio alla regia per un autore nipponico che conoscevo solo di sfuggita, del quale non avevo ancora visto nulla e che, dopo questa fulminante visione, posso promuovere a pieni voti.
L’animazione è a livelli molto alti e lascia anche un po’ di nostalgia nel cuore per quel sapore analogico pre-computer di sfondi dipinti a mano che si va un po’ perdendo in questi tempi di dominazione digitale. L’onirica storia, anche se molto intrigante ed adatta ad un pubblico esclusivamente maturo, lascia un filino giù per via della cultura giapponese che a me sta un po’ sui coglioni per come suddivide le persone in categorie fisse e fortemente gerarchizzate. D’altra parte però questo è un difetto che non è imputabile ai realizzatori, ma che al più rafforza la narrazione di una realtà artefatta e falsa come Daniela Santanchè.
Consigliatissimo.
VOTO: 4 Daniela Santanchè e mezza
Titolo originale: パーフェクトブル – Pâfekuto burû Regia: Satoshi Kon Anno: 1997 Durata: 81 minuti
BombaKabum, ascesa, bombaKabum e caduta di Sam “Asso” Rothstein; uno scommettitore della mafia di Chicago il quale, dopo anni di onorato servizio malavitoso, si ritrovò a gestire il Tangiers casino di Las Vegas per conto delle famiglie criminali nel fruttuoso periodo temporale prima che le multinazionali prendessero il controllo della città del peccato più banale del cosmo che, ancora non ho ben capito perché, attira milioni di teste di cazzo i quali, con le loro monetine che dovrei ficcargli nel culo una alla volta, finanziano i peggiori crimini dell’umanità in cambio di un brividino mentre tirano giù la leva della slot machine senza accorgersi che così facendo stanno solo esprimendo la loro latente omosessualità.
Nel film compaiono in ordine sparso: parrucche, gettoni, lampadine, presse, mafiosi, prostitute, mazze da baseball, nanerottoli e James Woods.
Il caleidoscopico imbuto musicale composto da 63 canzoni suonate una appresso all’altra nel quale lo spettatore scivola senza soluzione di continuità, dalle prime splendide immagini dei titoli di testa (realizzati dal leggendario Saul Bass) alle ultime arrancanti note di una composizione costruita su fondamenta mobili, è sicuramente uno dei punti di forza di una pellicola che altrimenti mostrerebbe ben presto la corda a causa di un affastellamento narrativo, sicuramente giustificato sia dal percorso stilistico del regista e sia dall’ambientazione assurda di una città costruita nel deserto del Nevada dove luci e suoni non s’interrompono mai, ma che tutto sommato lascia rintronati senza un vero giustificato perché.
Probabilmente la maggior differenza col capolavoro precedente Goodfellas, del quale questo appare un ideale seguito non autorizzato e per certi versi meno riuscito, risiede nel protagonista. Mentre lì si pativa assieme a lui lungo il solco della storpia vita di un manovale della criminalità, qui si fatica un po’ a stare al passo con uno che riesce difficile da definire con una definizione altra se non quella di malavitoso col disordine ossessivo compulsivo.
Rimane un buon film, ma è meno bello di quello che potrebbe sembrare a primo acchitto. Come Las Vegas.
VOTO: 4 ex manovali
Titolo originale: Casino Regia: Martin Scorsese Anno: 1995 Durata: 178 minuti
Eddie Weinbauer è un liceale patito della musica metal che un giorno viene preso PER il culo e l’altro viene preso A calci in culo dai soliti ragazzi sportivi viziatelli con la macchina carina e la felpa legata al collo sopra le camicia stirata dalla domestica filippina.
L’unico suo sfogo, abbastanza infantile, è ascoltare i mortificanti testi di Sammi Curr, una pseudo-rock-metal-star, suo concittadino dal gusto macabro, il quale, dopo aver offeso tutti i borghesi dal Mississippi al Nevada, è morto bruciato in un incendio lasciando però il suo ultimo misterioso disco al DJ della radio locale per essere suonato la notte di Halloween.
Il DJ però, sapendo la sua passione smodata per Sammi, regala il disco ad Eddie facendogli uno di quei pacchi che manco alla stazione centrale di Bari. Perché questo vinile, quando viene suonato al contrario, rivela messaggi e poteri progressivamente inquietanti che metteranno a repentaglio la vita di tutti i borghesi con la felpa legata al collo sopra la camicia stirata dalla domestica filippina.
Il bellissimo titolo italiano è sicuramente la cosa migliore del film e quella che, a distanza di decadi, ancora mi fa ricordare (con assoluta vaghezza) un filmetto di serie B che, lungi dall’essere brutto, non appassiona poi molto nonostante abbia in teoria tutti gli ingredienti del caso: giovani, musica, sesso, amore, orrore e felpe legate al collo sopra camicie stirate dalle domestiche filippine.
Un paio di scene molto simpatiche (quella con Ozzy Osbourne, nei panni di un reverendo puritano, e l’amico di Eddie che frettolosamente aspira le ceneri di una vecchia dal tappeto di casa prima che arrivi la madre), ma poi nulla più.
VOTO: 2 domestiche filippine e mezza
Titolo originale: Trick or Treat Regia: Charles Martin Smith Anno: 1986 Durata: 98 minuti
In Norvegia fa freddo, ma di un freddo che tu che sei cresciuto con le infradito ai piedi e Fabrizio Frizzi alla televisione non potrai mai capire a fondo.
Si dà il caso che in questa desolata landa dimenticata da dio viva una regina con lo strano potere di comandare questo freddo facendo il bello e il cattivo tempo a seconda del suo stato emotivo e ultimamente, tra genitori morti e paura d’abbracciare il suo vero IO (ovvero la sua omosessualità latente), il fiordo dove sorge il suo regno basato su una rigida dieta di salmone e acciughe si è completamente congelato.
Sarà compito di sua sorella zitella alla disperata ricerca di un cazzo d’amare e qualche figura maschile di contorno, messa lì per par condicio, cercare di mettere un freno alla discesa verso lo zero assoluto che invece il cadavere di Fabrizio Frizzi è riuscito oramai ad abbracciare appieno.
Ma io mi domando e dico: come cazzo è possibile che questo film sia il cartone animato con l’incasso più grande della storia? Come è possibile che questa insipida storiella puntellata di banalissime canzoni dai testi elementari abbia riscosso un tale successo globale?
Perché va bene andare incontro al pubblico più giovane abbassando il livello narrativo, va bene mantenere un tono comico superficiale per non disturbare i neonati piazzati davanti lo schermo da genitori troppo indaffarati ad arrivare a fine mese strangolati come sono da un sistema economico disegnato attorno al concetto che chi è ricco è sempre più ricco e chi è povero è sempre più povero… ma mannaggia cristo paladino delle renne norvegesi: è mai possibile che ‘sta cacata sia stata premiata con l’Oscar come miglior film d’animazione quando lo stesso anno c’era Si alza il vento che non sarà un capolavoro, certo, ma è infinitamente meglio de ‘sta porcata fredda come il cadavere di Fabrizio Frizzi?
VOTO: 2 Fabrizio
Titolo esteso: Frozen – Il regno di ghiaccio Regia: Chris Buck e Jennifer Lee Anno: 2013 Durata: 102 minuti
La rockstar Aldous Snow è in evidente stato d’abbandono psico-fisico dopo il rilascio del suo tremendo album African Child, la cosa peggiore per l’Africa dopo l’Apartheid, e la rottura con la sua fidanzata storica e conseguente affido del figlio alla madre.
A rilanciare la sua dormiente carriera potrebbe essere un concerto-anniversario al Greek Theatre di Los Angeles, un’occasione più unica che rara per riallacciare i rapporti con i suoi fans e riscoprire la gioia di vivere… l’unico problema è la sua micidiale tendenza auto-distruttiva che metterà più d’un bastone fra le ruote del povero galoppino della Pinnacle Records Aaron Green il quale è stato investito del difficile compito di trasbordare il derelitto umano da Londra, dove risiede con la madre, a Los Angeles, dove si svolgerà il concerto.
Film abbastanza divertente che merita più fama di quella che gli è stata riservata.
La ben rodata formula narrativa del road movie con coppia che scoppia compie il suo dovere come un bravo soldatino mandato al massacro, la regia e la fotografia sono quasi invisibili (cosa drammatica per un film d’autore, cosa normale per un film del signor nessuno) e le musiche sono indubbiamente orecchiabili e molto spesso spassose.
Se non fosse per un’ingiustificata tendenza allo stereotipo macchiettistico (tra l’altro molto più sgradevole della bonaria eccessività di African Child), dalle etnie alle mode passando per i modi di fare di questa o quella particolare sezione demografica, uno potrebbe anche premiarlo a pieni voti.
Ma è proprio questo continuo fare due pesi e due misure, tipico di chi non si rende conto di chi e cosa lo circonda perché troppo inconsapevolmente concentrato su sé stesso e sulla sua presunta superiorità intellettuale, che va poi a minare un’opera altrimenti eccelsa sotto molti punti di vista; perché a me fa molto più schifo vedere il solito nero che parla come un negro e che si veste come un domatore da circo piuttosto che una rockstar che canta assieme a degli africani vestiti da africani.
VOTO: 3 macchie
Titolo originale: Get Him to the Greek Regia: Nicholas Stoller Anno: 2010 Durata: 109 minuti