I soliti ignoti (1958)

Roma nel dopoguerra era una fogna a cielo aperto dove un brulicare di spaesati e assatanati morti di fame si contendevano la pagnotta quotidiana a suon di truffe e scippi mentre una ristrettissima cerchia elitaria di liberali godeva del benessere costruito alle/sulle spalle del popolo sovrano.

Nell’eterna periferia scheletrica di quartieri in costruzione o semi distrutti dalle bombe americane, si muovono 5 criminali da strapazzo che hanno in mente di svoltare con un colpo al monte di pietà, che messa così è già tutto un programma, perforando una parete di un appartamento adiacente così da giungere alla cassaforte coi gioielli.

Non sarà facile come sperano e la vita cagna ricorderà loro lo strato sociale nel quale dovranno smelmare per il resto della loro miserevole vita.

I soliti ignoti (1958)

Film fondamentale della cinematografia italiana e capostipite della cosiddetta “commedia all’italiana”, I soliti ignoti è stato scritto dai famosi Age e Scarpelli, autori tra i più prolifici del genere, e diretto da Monicelli, che non ha bisogno di presentazioni.

Girato per le strade e i palazzi di una Roma fottuta dal capitalismo e pieno di personaggi miserevoli e detestabili che non inducono al classico compatimento cristiano, ma che invece sfidano lo spettatore ad andare oltre i propri schematismi mentali per giungere alla conclusione che, quando i liberali stanno al potere, il più pulito c’ha la rogna, questa pellicola è anche e soprattutto molto divertente.

Consigliarlo sarebbe ovvio… posso invece sbloccarvi un ricordo: Monicelli è morto a 95 anni gettandosi da una finestra dell’ospedale San Giovanni di Roma perché malato di cancro alla prostata; tumore dal quale Silvio Berlusconi è guarito brillantemente.

VOTO:
5 Berlusconi

I soliti ignoti (1958) voto

Titolo inglese: Big Deal on Madonna Street – Persons Unknown
Regia: Mario Monicelli
Durata: 1 ora e 39 minuti
Compralo: https://amzn.to/3KoUS3d

Adam & Paul (2004)

Una giornata tipo di Adam e Paul, due amici di lunga data diventati disperati eroinomani, che nel tentativo di rimediare la dose quotidiana incontrano personaggi bizzarri volti sia a dare una pennellata informativa di realtà irlandese al volgere del secolo e sia ad evocare quasi un viaggio odisseico alla ricerca di un posto da chiamare casa.

Sbandati, mongoloidi, ubriaconi, ignoranti immigrati  e menefreghisti del cazzo si susseguono l’uno dopo l’altro sul tappeto srotolato delle conoscenze di Adam e Paul facendoli apparire non come dei reietti perché diversi ma nient’altro che due cittadini perfettamente in linea con l’ingiustizia sistemica.
L’unica differenza con chi gli sta intorno è che loro due non ce la fanno a riversare sul prossimo tutto il loro carico di dolore.

Adam & Paul (2004)

Fantastico film a basso costo ed alto rendimento che seziona il perverso perbenismo di una Dublino in completa rovina morale per ricavarne una sorta di neorealismo anche molto duro con piccole note fantastichevoli; una cosa un pochino in voga al cinema durante quel periodo a cavallo di millennio.

Questa brutale doccia fredda per lo spettatore medio verrà purtroppo un po’ stemperata negli anni a venire, anche osservando lo stesso regista che 10 anni dopo tirerà fuori Frank, un film dove si invertono le proporzioni tra dolce e amaro; qui era limone con un pizzico di zucchero mentre lì sarà tortino con un pizzico di cannella.

Tometo tomato diranno alcuni; segno della fine della sacrosanta lotta di classe dico io.

VOTO:
4 tortini

Adam & Paul (2004) voto

Titolo ungherese: Adam és Paul
Regia: Lenny Abrahamson
Anno: 2004
Durata: 1 ora e 23 minuti
Compralo: https://amzn.to/3dJxGOF

Un sogno chiamato Florida (2017)

Ai margini di quello che un tempo fu chiamato The Florida Project, ovvero un piccolo prototipo di comunità volta a sperimentare un sistema di vita futuristico presto riconvertito in classico parco di divertimenti a seguito della morte dell’alcolista e semi-fascista fondatore Walt Disney e quindi conosciuta oggi come Walt Disney World, vive l’emarginata e bistrattata popolazione tagliata fuori dai giochi di potere di quel “Sistema America” ampiamente amato dai fascio-liberali come Walt Disney.

Una serie infinita di sfaccettature d’umanità che si dipana fragilmente ai margini di un’esistenza crudele e che viene perentoriamente schiacciata sotto una massa informe d’ingiustificate accuse di pelandronite volte solamente a nascondere e ribaltare il tavolo accusatorio dai padroni ai proletari i quali da sempre vengono dileggiati anche e soprattutto nella loro unica e fondamentale cifra identificativa, ovvero i figli a cui non riescono a provvedere a sufficienza, non per mancanza d’amore ma per mancanza di solidarietà.

E in questo film abbiamo infatti una giovane madre single dai modi sgarbati, dalla natura lasciva e dalla cultura raso-terra che è riuscita ad affermare se stessa unicamente coi suoi vistosi tatuaggi e (ahimè) scaricando al mondo una bambina che ama profondamente perché è l’unica amica che ha.
Una bambina, Moonee, dalla vivacità sorprendente e dalla sfacciataggine ancora più assurda che passa le calde giornate estive bighellondando assieme ad altri indomiti pargoli dentro e fuori il motel per poveracci dove risiedono chiamato ironicamente Magic Kingdom, come il parco centrale a Disney World.
Un’assonanza, questa tra il mondo magico e fiabesco della multinazionale americana e la dura realtà del loro quotidiano, che si ripercuote per tutto il film: Moonee quindi visita le stanze abbandonate di un motel nelle vicinanze come fosse la casa dei fantasmi o va a fare una passeggiata tra le mucche come si trovasse ad un safari in Animal Kingdom, tutto ciò passando davanti coloratissimi e cartooneschi negozi che risultano la copia saturata di quelli presenti dentro il famoso parco di divertimenti.

E sotto quest’ottica di realtà speculare va chiaramente vissuto lo stilisticamente stridente finale, primo ed ultimo assaggio di un mondo visto con gli occhi dei bambini, poveri.

Un sogno chiamato Florida (2017)

C’è poco da girarci attorno: questo film è un capolavoro neorealista visto con uno sguardo indulgente e compassionevole, senza per questo essere pietistico o assolutorio; uno sguardo che poi è perfettamente rispecchiato nel bel personaggio guida intepretato da Willem Dafoe.

Come da tradizione neorealista, gli attori  (molti dei quali presi dalla strada) si esprimono con una naturalezza e una capacità scenica da far invidia ai pastrocchioni hollywoodiani tanto elogiati da pubblico e critica e conducono agilmente per mano lo spettatore dentro una storia appassionante e a tratti struggente.
Qui non c’è spazio per metodi stanislavski o insegnanti d’accento, qui non c’è Luca Marinelli che fa il romanaccio accentuando l’accento ‘ci sua, qui non c’è niente dell’irrealtà della macchina cinematografica, semplicemente perché non serve; qui invece siamo di fronte alla dura realtà del sogno americano infranto contro il muro dell’individualismo indifferente sopra la cui carcassa scintillante danzano e giocano i figli dei proletari attirati dai colori sgargianti della carrozzeria distrutta.

E allo stesso tempo la pellicola straborda di coloratissime e deformate inquadrature dal basso verso l’alto che rispecchiano pienamente la visione che un bambino avrebbe di un’estate nella florida Florida; un’estate che purtroppo la piccola Moonee non dimenticarà facilmente.

Il cinema nostrano ha prodotto qualcosa di simile qualche tempo fa: La pivellina, non male.

VOTO:
4 Stanislavski e mezzo

Un sogno chiamato Florida (2017) voto

Titolo originale: The Florida Project
Regia: Sean Baker
Anno: 2017
Durata: 111 minuti

Diario di un vizio (1993)

Jerry Calà è un povero sporcaccione semi-disoccupato che pensa solo ed unicamente alla fregna, alle zinne, al coito, alla misura del suo cazzo, alla fidanzata troia, alle pippe, alle bambine ai giardinetti…

La cosa interessante è che in questo film la sua vita personale e il lavoro d’attore trovano vicendevolmente linfa vitale e Jerry si ritrova a vestire i panni di un povero sporcaccione semi-disoccupato che pensa solo ed unicamente alla fregna, alle zinne, al coito, alla misura del suo cazzo, alla fidanzata troia, alle pippe, alle bambine ai giardinetti…

Diario di un vizio (1993)

Stranissimo esperimento anti-narrativo con al centro un pessimo attore comico prestato al grande dramma, così da spiazzare tutto e tutti…
e invece no: Calà fa cacà nonostante si vede c’abbia messo molto impegno, il montaggio è a dir poco spaesato, la regia da Mack Sennett, le musiche spesso intrusive e la storia vorrebbe ma non può.

L’unica cosa bella (si fa per dire) è questa Roma orrenda che fa da degno contorno alle miserie dei personaggi: triste, piena di macchine, grigia, popolata di esseri umani alla deriva psicologica e morale.
Ovviamente la Kritica ha schifato lo schifo romano ed ha invece amato le generose puppe della Ferilli, ma che ve lo dico a fare.

VOTO:
2 kritici e mezzo

Diario di un vizio (1993) voto

Titolo inglese: Diary of a Maniac
Regia: Marco Ferreri
Anno: 1993
Durata: 94 minuti

Il ladro di bambini (1992)

Rosetta ha 11 anni e la madre, povera siciliana trapiantata a Milano, la prostituisce in cambio di soldi.
Il film si apre proprio con l’arresto della madre e di un cliente abituale di Rosetta e il conseguente viaggio in treno della bambina e il fratello minore dal capoluogo lombardo fino ad un orfanotrofio a Roma assieme al carabiniere Antonio, anche lui povero siciliano trapiantato al nord.

Il ladro di bambini (1992)

Grande film neorealista per il maestro Amelio e grande successo di pubblico e critica per un dramma sociale quale quello della prostituzione minorile; la cosa interessante qui però è che, a differenza delle trasmissioni guardone e pervertite che ci godono a crogiolarsi nel dramma di questi bambini, l’attenzione viene invece spostata dal mero reato facilmente condannabile verso un affresco sociale lasciato aperto al moto emozionale del pubblico e ad un’approfondita disamina del tessuto urbano moderno.
Mettere in scena questi eventi pruriginosi lascia infatti un po’ il tempo che trova; allargare invece il discorso all’arretratezza del sistema Italia nell’affrontare le innumerevoli vicissitudini umane giova al discorso intellettuale e alla soluzione politica.
Impressionante poi vedere un’Italia così vicina temporalmente eppure così lontana per usi e costumi; un paese in gran parte scomparso, fatto di musica italiana alla radio, trattorie all’aperto e “del Voi” agli anziani.

VOTO:
5 anziani

Il ladro di bambini (1992) voto

Titolo inglese: The Stolen Children
Regia: Gianni Amelio
Anno: 1992
Durata: 114 minuti

Pelo Malo (2013)

Nel Venezuela catto-comunista di Hugo Chávez prossimo alla morte, il giovine orfano di padre Junior deve fare i conti con una povertà dilagante, una società ancora fortemente machista e una madre mascolina che vuole fungere da figura paterna mentre allo stesso tempo si fa chiavare sul divano di casa dall’ex boss zozzone per farsi ridare il posto di lavoro di guardiana di notte.

Pelo Malo (2013)

Interessantissima pellicola venezuelana che gioca su 2 o 3 grandi temi dell’america latina: un machismo forzato che ti difende dalla società, una sessualità fluida da nascondere e una povertà che se porta via.

Ottimamente interpretato da un ragazzino dall’odiato capello riccio (quasi reminiscente del nostrano Rosso Malpelo) e una burbera madre dalle zinne (notevoli) sempre all’aria, Pelo Malo gioca sul non detto e sull’insoluto e questo ha fatto storcere il naso a qualche critico d’oltreoceano che probabilmente è troppo abituato ad una narrazione esplicita e catarco-risolutiva.

Qua invece non si risolve un beneamato cazzo, se non la consapevolezza che a Caracas la vita è dura ed è meglio crescere in fretta per non finire schiacciati.

VOTO:
4 duri

Pelo Malo (2013) voto

Titolo originale: Pelo Malo
Regia: Mariana Rondón
Anno: 2013
Durata: 93 minuti

Le Meraviglie (2014)

E’ il 1994 e sulle terre intorno a Grosseto, un tempo abitate dagli Etruschi, ora da contadini grezzi e un po’ provincialotti, vive una famiglia di poveri apicoltori composta da padre tedesco brusco e cacacazzi, madre italiana con la dizione teatrale e i capelli mesciati, e 4 figlie alto-laziali cresciute in mezzo a merda e fango e sognatrici di una via di fuga da quella realtà brulla e senza dio.

Stretti tra la pressione della nuova Italia fatta di regolamentazioni igieniche europee da una parte e dai turisti stranieri alla ricerca del casale in Toscana dall’altra, questi ultimi sopravvissuti di un popolo misterioso completamente fagocitato dai Romani, di cui sappiamo poco o nulla e il cui alfabeto resta e probabilmente rimarrà sempre indecifrabile, si barricano entro alte mura fatte di rabbia e incomunicabilità alla disperata ricerca di un modo per spingere un giorno più in là l’inevitabile fine.

Le Meraviglie (2014)

Parzialmente ispirato alle personali esperienze giovanili della regista Alice Rohrwacher, figlia di apicoltori, padre tedesco e madre italiana, Le meraviglie è veramente un film ciofeca.

Spudoratamente intellettualoide, con tutti quegli ammiccamenti al cinema d’autore del cazzo tipo le lunghe inquadrature sul nulla, le albe rossastre, i tramonti tristi, gli animali esotici in paesaggi insoliti che Fellini te sparerebbe in bocca, il montaggio lento, le musiche diegetiche (coddio Ambra Angiolini), la comparsata di Monica Bellucci che uno dice cazzo me significa a parte che volevi fare cassetta mettendoci l’attrice famosa perché se invece volevi usare un’attrice umbra potevi scegliere una meno cagna, e chi più ne ha più ne metta, beh qui io non so proprio dove mettere le mie rabbiose mani.

Con un evidente parallelismo (fine a sé stesso) tra la scomparsa dell’Etruria e l’Italia pre-Unione Europea, Le meraviglie è una vera e propria rapina a mano armata al cinema indipendente.
Non so voi, ma io mi sono rotto il cazzo di questi registi-attori-produttori-sceneggiatori italiani che menano il can per l’aia sui bei tempi andati e sui valori della cultura locale mentre se ne stanno belli paciosi nelle loro ville in Toscana e Umbria letteralmente strappate per due spicci agli stessi agricoltori locali che poi celebrano coi loro finti piagnistei nei loro filmetti di merda prodotti coi soldi della Rai e della Banca BNP Paribas che è la terza banca più grande del mondo.

Ma andate affanculo.
Qua l’unica meraviglia è che qualcuno a Cannes applauda per 12 minuti a cotanta merda.

VOTO:
2 merde

Le Meraviglie (2014) voto

Titolo inglese: The Wonders
Regia: Alice Rohrwacher
Anno: 2014
Durata: 110 minuti

Charlie’s Country (2013)

Charlie è un Yolngu, un aborigeno australiano delle terre del nord, che fatica non poco a vivere una vita decente e rispettosa delle regole dell’uomo bianco.
La sua terra è stata strappata via dai coloni inglesi un secolo fa e Charlie, come tanti altri nativi, si ritrova per strada, vestito di stracci, e nella più totale incapacità di conciliare le sue tradizioni culturali con il modo di vivere occidentale.
La polizia gli confisca la pistola che usa per cacciare e la jeep dell’amico che usa per spostarsi e il bufalo d’acqua che hanno catturato e la lancia che si è costruito da solo; l’uomo bianco infatti ha introdotto un sistema economico-sociale totalmente estraneo alle popolazioni locali e poi ha preteso che questi locali si adattassero senza batter ciglio.
Insomma, la solita vecchia storia della civilta più avanzata che conquista e devasta a suon di mazzate i popoli più indifesi.

Girato secondo i più classici crismi del film minimalista ed assolutamente pieno di buoni intenti, Charlie’s Country è però una vera propria rottura di cazzo.
Fortunatamente sorretto dall’incredibile fisicità di David Gulpilil, una celebrità in Australia per sue doti di danzatore narratore attore cacciatore raccoglitore, questo polpettone insostenibile pieno di sensi di colpa per le atrocità commesse dai bianchi e inzuppato di inquadrature di tramonti belli sì ma che alla fine ‘sti cazzi diviene dopo appena 20 minuti una soporifera tortura per il povero uomo bianco che si è ritrovato a pagare il biglietto nella vana speranza di vedere un’opera politico-sociale interessante.

Considerando invece che lungo il corso del film il nome “Charlie” viene pronuciato 367 volte mentre “Country” viene invocato non meno di 854 volte, tutto quello che si può dire è che, a differenza del Pasto Nudo, il titolo è molto fedele alla trama.

VOTO:
2 bufali d’acqua

Charlie's Country (2013) voto

Titolo originale: Charlie’s Country
Regia: Rolf de Heer
Anno: 2013
Durata: 108 minuti

Amore Tossico (1983)

Ndo’ s’annamo a spertusa’ ‘a venazza?
Oh, gira qua, dai!
Va dritto.
Oh, ‘namo a le fratte che è er posto più vicino, su.
No, le fratte no!
Oh!!! Avete cacato er cazzo! ‘O so io do’ s’annamo a fa’.

Roma, anni '80
Roma, anni ’80

Carlo Caligari è stato un regista fuori dagli schemi e fuori dal sistema: nella sua quarantennale carriera è riuscito a girare solo 3 film (l’ultimo in uscita a settembre grazie all’aiuto dell’amico di sempre Valerio Mastandrea).
Amore tossico invece è stato il suo esordio col botto sul grande schermo con un trionfo a Venezia, dove vinse il premio De Sica; girato tra Ostia e Centocelle con uno spirito profondamente neorealista e attori dalla strada veramente tossicodipendenti, Amore tossico è un’anomalia, un film che in teoria non sarebbe dovuto uscire.
Perché Amore tossico descrive ma non giudica questa realtà fatta di rapine, droghe e disperazione, e in un paese come l’Italia, pieno di preti e fascisti, l’assenza della condanna è un fatto strano e pericoloso, perché lascia la gente libera di pensare.

Ma Amore tossico non è solo un film crudo sulla tossicodipendenza delle periferie romane negli anni ’80, è anche uno straordinario manifesto in salsa comica di un punto di vista politico preciso che vedeva (e vede) nel cittadino in difficoltà un motivo di compassione e non un moto di disgusto.
I bravissimi attori non-attori riescono a veicolare tutta la spontaneità di una vita condotta alla giornata, dove si campa in attesa della “svorta” e cioè un evento improvviso e in parte inaspettato che regala al fortunato che “ha svortato” una prospettiva nuova e un motivo in più per non ammazzarsi buttandosi “a fiume”.

Io me lo ricordo, quando ero piccolo, quello che si diceva sui tossici: gente da evitare, gente pericolosa, che ti rubava il portafoglio, che ti bucava con l’ago sporco, che ti attaccava le malattie.
C’era una fobia assoluta e l’atteggiamento del popolo era quello di voltare la testa dall’altra parte, un po’ come si fa oggi coi nuovi disperati agli angoli di una Roma eterna e ingiusta.
Claudio Caligari invece ci si butta a capofitto in questa nebbia delle coscienze collettive, in questa melma del fallimento delle politiche di inclusione varata negli anni ’70, e lo fa con un amore sincero, un amore semplice che fa da perfetto contraltare ai piccoli e disperati amori di Cesare, di Ciopper, di Enzo, di Michela, di Patrizia, di Loredana e di tutti quelli che non ce l’hanno fatta a portare dentro quell’insostenibile voglia di felicità.

VOTO:
5 Pasolini

Amore tossico (1983) voto

Titolo inglese: Toxic Love
Regia: Claudio Caligari
Anno: 1983
Durata: 90 minuti

The Tribe (2014)

Nell’Ucraina indipendentista (e sempre più fascista) del 2013, in un istituto per sordomuti nel quale vige la regola del più forte e del maschilismo più basilare e animalesco, l’ultimo ragazzo arrivato deve fare i conti con gli inevitabili riti di iniziazione che lo porteranno a far parte di quelli che comandano e fottono o di quelli che subiscono e vengono fottuti.

Superate prove di forza fisica e di spavalderia delinquenziale, è accolto nel “giro giusto” e gli viene quindi affidato il compito di scorrazzare di notte con un furgone due studentesse dello stesso istituto (giovani abili mignotte) presso i camionisti della zona.
Sfortuna vuole che il povero stronzetto si innamori di una di queste e non riesca più a fare a meno di lei, impedendole persino di andare a lavorare.
Quando verrà confrontato dall’imminente partenza della ragazza verso l’Italia (dove presumibilmente continuerà a dare il culo), dovrà decidere cosa fare: se lasciar andare oppure no.

The Tribe (2014)

Sorprendente film d’esordio per l’ucraino Miroslav Slaboshpitsky, il quale si era già fatto notare per alcuni corti in giro per i festival (notevole Nuclear Waste del 2012), il film riesce nella difficile impresa di essere innovativo e tradizionalista allo stesso tempo.

Girato con attori sordomuti e quindi senza dialoghi, The Tribe rimanda ai grandi classici del cinema muto (opere capaci d’incantare esseri umani di ogni lingua e nazione) e al contempo vuole rompere irrimediabilmente con la cinematografia contemporanea, tutta volta alla parola.
Qui siamo sui terreni di Béla Tarr, immenso regista ungherese famoso per i suoi lunghissimi piani sequenza a seguire silenziosi personaggi in ambienti ostili e desolati; lo stile di Gus Van Sant per la sua trilogia sulla morte è direttamente ispirato a Béla, e questo The Tribe non è da meno.

Girato magnificamente con una cadenza d’orologio secondo la quale ad ogni sequenza corrisponde un’unica lunga ripresa, questo film riesce a dare ampio respiro visivo ad un pubblico troppo assuefatto al montaggio frenetico dei nostri tempi.
Mentre si assiste a quest’opera invece, si è obbligati a rallentare per prestare maggiore attenzione ed entrare così in relazione e con i personaggi, bisognosi della vista per essere in contatto l’uno con l’altro, e con l’Ucraina, un paese apparentemente orribile e senza più uno spirito morale, totalmente guidato dal rampantismo capitalista più sfrenato e becero e popolato da orde di teppistelli fascistoidi senza freni inibitori o valori morali a cui fare affidamento.

Nonostante The Tribe debba molto al neorealismo italiano, lo stile di recitazione a volte è marcatamente teatrale; non si capisce però se sia voluto, se sia colpa degli attori (non professionisti) o se sia il linguaggio dei segni, con la sua abbondanza di gestualità ed espressività volte a sopperire l’assenza del suono, la reale forza scatenante di certi balletti ipnotici di corpi che si muovono come fluidi o gas finalmente liberati dagli spazi angusti in cui gravitavano.

Parlare di un film come The Tribe non è facile, e forse far passare le emozioni che riesce a suscitare nel pubblico lo è ancora di meno; l’unica cosa che posso fare è consigliarlo caldamente a chiunque abbia un minimo di intelligenza, una regolare dose di pazienza e tanta voglia di scoprire un mondo ricco d’umanità totalmente ignorato dalla massa.

VOTO:
5 aborti clandestini

The Tribe (2014) Voto

Titolo originale: Plemya
Regia: Miroslav Slaboshpitsky
Anno: 2014
Durata: 132 minuti

La pivellina (2009)

Il Neorealismo fu la risposta della sinistra italiana al fascismo italiano dopo la fine della seconda guerra mondiale: mentre il regime amava la finta perfezione della medio borghesia, gli intellettuali di sinistra sapevano che la realtà sociale era ben diversa e che la maggior parte degli italiani viveva in condizione di profonda povertà ed ingiustizia; questo scontro di vedute fece sì che una volta finita la censura statale del Duce, gli artisti italiani furono in grado di rappresentare personaggi reali in situazioni reali su paesaggi reali.
Era nato il Neorealismo, una corrente principalmente cinematografica che ha creato mostri sacri come Ladri di biciclette e Umberto D.
Poi, con il boom economico e il ritorno di un certo imborghesimento fascista, l’Italia è tornata presto a mettere in scena commedie stronzatelle e vite dei santi.
Fortuna vuole però che il Neorealismo non sia morto e che anzi abbia pervaso mezzo mondo con la sua tecnica semplice eppure dirompente.
La pivellina è uno di questi nuovi frutti artistici neorealisti, e non è niente male.

La pivellina (2009)

Girato in 16mm anche se sembra fatto con una handycam del 2003, questo film segue le vicende di Patty e Walter, due vecchi artisti circensi che abitano in un campo a San Basilio (Roma), e di Asia, presto soprannominata Pivellina, una bambina di 2 anni abbandonata dalla madre su un’altalena del quartiere e accolta amorevolmente dalla coppia di artisti di strada.
Da questo semplice spunto, la pellicola procede per episodi più o meno riusciti fino ad un triste enigmatico finale che è un po’ telefonato ma è comunque bello.
I due circensi sono straordinari nella loro naturalezza e fotogenicità e lo stile molto semplice e quasi casareccio dà comunque un valore realista ancora maggiore all’opera; resta però che la cosa più interessante è la bambina a cui il titolo fa giustamente riferimento: i tanti piccoli momenti di semplice eppure emozionante vita catturati con pazienza certosina dai due registi Tizza Covi e Rainer Frimmel valgono da soli metà del progetto.

VOTO:
4 Sciuscià

La pivellina (2009) voto

Titolo originale: Non è ancora domani (La pivellina)
Regia: Tizza Covi & Rainer Frimmel
Anno: 2009
Durata: 100 minuti

Mery per sempre (1989)

La Sicilia ha tanti fiumi:
Simeto, Alcàntara, Ànapo, Bèlice, Dittàino, Gornalunga, Plàtani, Salso, Acate, Agrò, Arena, Asinaro, Bèlice, Destro, Pietralonga, Fiume Grande, Bèlice Sinistro, Frattina, Bèlici, Braemi, Calderari, Caltagirone, Carbo, Cassìbile, Cerami, Chinìsia, Comunetti, Cutò, Delia, Disueri, Elicona, Ferro, Ficarazzi, Freddo, Furiano, Gallo d’Oro, Gela, Gibbesi, Grande, Iato, Imera, Ippari, Irminio, Ispica, Lentini, Lodderi, Magazzolo, Marcanzotta, Marcellino, Màrgana, Margherito, Maroglio, Màzaro, Mazzarra, Mela, Mìlicia, Modione, Monaci, Morello, Naro, Naso, Niceto, Nocella, Oreto, Palma, Patri, Pòllina, Rincione, Rosmarino, S. Bartolomeo, S. Leonardo, S. Stèfano, Salito, Saracena, Sàvoca, Sènore, Serravalle, Sosio, Sotto di Troina, Tellaro, Tèrmini, Timeto, Torto, Trinità, Troìna, Tùrvoli, Tusa, Verdura, Vìcari, Zappulla.
I fiumi di Sicilia sono tanti, però spesso i Siciliani non hanno l’acqua.
E perché?
Perché in Sicilia c’è la Mafia che sull’acqua c’ha fondato il suo impero fatto di violenza, ingiustizia e omertà.
Questo i Siciliani delle periferie disagiate di Palermo non lo sanno; per loro la Mafia è quasi un bene: la Mafia ti dà un lavoro, la Mafia dà un senso alla tua vita di stenti e calci in bocca, nella Mafia puoi diventare qualcuno se sai farti valere, e non serve un titolo di studi, e non serve saper leggere e scrivere.
Basta un coltello, il buio della notte e una buona dose di stupidità per “svoltare”, per fare il boss.
Anche i ragazzini non sono esenti da questa legge della giungla, e più spesso che mai vengono pizzicati in flagranza di reato e spediti in carceri minorili, come il Malaspina di Palermo.
Marco Terzi è un professore di liceo di Milano che si ritrova ad insegnare nel Malaspina; ha una classe di pochi ma agguerriti ragazzi, i quali vedono in lui un’altra estensione dello stato, quello stesso stato italiano che si interessa a loro solo quando è tempo di sbatterli in galera, solo per punirli, come un padre padrone di 200 anni fa.
Marco questo lo capisce presto e vuole quindi segnare una svolta, seppur piccola, nelle vite dei suoi studenti.

Mery per sempre (1989)
né carne e né pesce… come Matteo Renzi

Mery per sempre è stato un film epocale: alla sua uscita, questa piccola ma importantissima pellicola neorealista è stata salutata da molti come una boccata d’aria fresca nel cinema buonista italiano che ha sempre trattato i problemi del bel paese a canzonette e barzellette.
Qui si fa sul serio invece, i ragazzi sono presi dalla strada e le loro recitazioni paiono più realistiche che mai, le caratterizzazioni sono brevi ma incisive, ogni personaggio e ogni luogo di questo cesso di città martoriata dall’inedia e dagli schiaffi sono introdotti allo spettatore con precisione e arte, quasi come in una poesia alla morte.
Diretta da Marco Risi, figlio del grande Dino, questa pellicola fa parte di quel breve elenco di film a cavallo tra anni ’80 e ’90 che hanno saputo trattare temi sociali importanti con una cura, una profondità ed un’empatia che solo una coscienza politica d’altri tempi poteva darti.

Andati sono i tempi in cui un transessuale minorenne poteva fare la lezione al personaggio principale, uno pieno di buoni propositi ma distaccato dalla realtà quotidiana dei suoi giovani e disperati studenti.
Oggi invece prevale la voglia di fare la lezioncina imparata sui libri, senza aver capito quanto quei libri la gente comune non li sappia leggere.

VOTO:
4 libri e mezzo

Mery-per-sempre-(1989)-Voto

Titolo originale: Mery per sempre
Regia: Marco Risi
Anno: 1989
Durata: 102 minuti