C’è ancora domani (2023)

Delia è madre, moglie e nuora.
Non ha una sua identità, ma esiste solo ed unicamente in funzione di un maschio ed ecco quindi che il marito, il suocero o i figli le spiaccicano in faccia l’unico possibile volto da poter esporre in società, l’unico in una città, un paese e un’epoca intrise di patriarcato.

Delia ha uno spirito arguto, una piccola voglia di rivalsa nei confronti di tutti quelli che la schiacciano, la riempiono di botte e la sottopagano solo perché lei è una donna; ma non è ancora tempo per le rivendicazioni di classe, figuriamoci quelle di genere.
E’ finita da poco la seconda guerra mondiale e le donne non possono uscire di casa senza permesso, devono stare zitte quando parlano gli uomini, non possono gestire i soldi, non hanno diritti; una condizione di totale sottomissione che troverà sfogo solo 30 anni dopo con gli anni della rivoluzione culturale e le conquiste sociali della sinistra internazionale, ottenute a suon di schiaffi in bocca e manganellate.

Delia quindi, anche se dentro è ancora ribelle, vive oramai in maniera rassegnata la sua vita, ma non vuole che la figlia faccia la sua stessa fine solo perché questa ha fretta di scappare di casa nell’unica maniera che a quel tempo era possibile per una donna: con un matrimonio.

C'è ancora domani (2023)

Un capolavoro assoluto.

La storia della donna Delia, romana vessata dai nostri nonni con le botte e le minacce, che ha 3 lavori ma non ha diritto a tenersi niente dei soldi che porta a casa, che trova il tempo di parlare con le persone solo nel tragitto tra una faccenda e l’altra, è la storia delle donne che hanno fatto la mia Roma, la nostra Italia e alle quali non è mai stato riconosciuto questo ruolo fondamentale perché purtroppo a questo mondo ci sono persone che pensano che non siamo tutti uguali.

E questo racconto femminile e femminista, che solo apparentemente parte solitario e invece si risolve coralmente attraverso i mal comuni di Delia e delle altre donne che inaspettatamente si ritroveranno dallo stesso lato della barricata, ci regala un finale meraviglioso che è anche la parte più straordinaria del film, ovvero: Delia conquista la sua fuga dalle ingiustizie senza l’aiuto dell’ennesimo uomo, ma attraverso le sue forze e quelle delle tante altre donne che spesso compongono i film che vediamo tutti i giorni in ruoli defilati e che qui invece si meritano i tanto agognati primi piani.

Come amava ripetere il povero Luigi Di Maio, non puoi fermare una cascata con le mani e finché ci saranno quelli che apriranno bocca per dare voce a chi voce non ce l’ha, allora forse le cose cambieranno.

Con solo questa lingua in bocca
E se mi tagli pure questa
Io non mi fermo, scusa
Canto pure a bocca chiusa

VOTO:
4 lingue lunghe e mezza

C'è ancora domani (2023) voto

Titolo inglese: There’s Still Tomorrow
Regia: Paola Cortellesi
Durata: 1 ora e 58 minuti

Un affare di famiglia (2018)

Una bambina maltrattata dai suoi genitori naturali viene presa in casa (rubata) da una famiglia atipica composta da individui un po’ malandrini uniti non dal sangue, ma dal senso di solitudine che pervade i loro cuori.

Ovviamente questa vita ai margini fatta di sotterfugi e furtarelli per tirare a campare un altro giorno ed uno ancora non potrà durare a lungo, specialmente quando la polizia cercherà la bambina scomparsa.

Un affare di famiglia (film 2018)

E’ una Tokyo diversa dalla solita metropoli illuminata e futuristica quella che fa da sfondo a questa storia familiare di una famiglia che famiglia non è: 6 diverse persone condividono una casa con spazi angusti e sporchi perché quello è anche l’unico posto dove si sentono voluti bene e dove sanno che almeno non moriranno soli, come dice l’anziana padrona di casa osservando l’allegra combriccola bagnarsi i piedi al mare.

Il regista è lo stesso di Ritratto di famiglia con tempesta e di quel particolarissimo film che ho cercato disperatamente per 15 anni dopo averlo visto casualmente una notte su Fuoriorario, ed ancora una volta decide di portare sullo schermo il tema dei legami affettivi, familiari, amorosi non corrisposti, temi probabilmente molto cari ad un uomo del paese del sol levante.

Ha vinto la Palma d’oro a Cannes, ma secondo me è una reazione un po’ esagerata.

VOTO:
3 Ghezzi e mezzo

Un affare di famiglia (film 2018) voto

Titolo originale: 万引き家族 (famiglia di taccheggiatori)
Regia: Hirokazu Koreeda
Durata: 2 ore e 1 minuto
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Cane bianco (1982)

L’aspirante attrice Julie Sawyer ha delle microtette che spera possano servirle da grimaldello per entrare nel fantastico mondo del cinema, ma purtroppo le manca quella cosa chiamata talento.

In compenso riesce ad investire un grande cane bianco di cui ben presto microtette Sawyer si fida ciecamente (come del suo ginecologo) ed intende perciò tenerlo in casa come suo amante; e però niente, pure qui una delusione perché si scopre che l’animale è razzista e attacca le persone nere per staccare loro la giugulare.
L’unico in grado di ricondizionare il cane sembra essere un domatore circense nero con una passione felina per gli hamburger, ma siamo sicuri riuscirà nell’impresa senza perdere la verginità?

Cane bianco (1982)

Purtroppo la stessa persona che fece quell’interessantissimo bel film chiamato Shock Corridor è anche la stessa che ha vomitato questa cacata fredda sul marciapiede dietro la Conad.

Sì, cacata perché nonostante il chiaro intento anti-razzista, il film è un concentrato di spinte reazionarie che neanche Italia Viva del giullare di Rignano:
-il ragazzo di microtette le dice di tenere il cane per autodifesa e la sera stessa uno “stupratore” le imbocca in casa per suggere il suo nettare.
-chi ha educato il cane ad essere razzista è un dignitosissimo vecchio poveraccio che vive in roulotte, ma è povero quindi stupido quindi razzista.
– il razzismo è come un’infezione e non può essere curata.

Non tutti sanno che:
– il film doveva essere girato da Roman Polanski, ma poco prima dell’inizio delle riprese il nostro caro Roman fu accusato di stupro di minorenne e scappò come un coniglio in Francia protetto dai suoi amici pedofili mangia rane.
– il film è stato praticamente bandito in madrepatria per il suo contenuto altamente controverso ed è rimasto una sorta di underground classic cult per tantissimi anni fino ad un recente restauro e riscoperta.
– il film è tratto dall’omonima novella autobiografica di Romain Gary che una volta sfidò Clint Eastwood a duello dopo aver scoperto che si ciulava sua moglie.
– il giullare di Rignano è Matteo Renzi.

VOTO:
2 giullari

Cane bianco (1982) voto

Titolo originale: White Dog
Regia: Samuel Fuller
Durata: 1 ora e 30 minuti
Compralo: https://amzn.to/3EAbsfu

Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Hanno aperto un centro accoglienza immigrati in un quartiere popolare e problematico di Roma e ovviamente è scoppiata l’eterna bagarre tra chi non vuole concorrenza mentre spaccia la droga in piazza, i fascisti, e quelli dell’area comunista/antagonista.

Nel frattempo torna nel quartiere un vecchio amico di Zerocalcare, il corpulento Cesare, che dopo tipo 20 anni in comunità si caca sotto all’idea di dover affrontare nuovamente i demoni di un passato quanto mai presente nelle periferie capitaliste che ci siamo meritati dopo 70 anni di governi liberali.

E Secco vuole sempre il gelato.

Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Rispondendo all’enigma posto nella recensione della precedente stagione, possiamo confermare che alla fine Zerocalcare la fica sotto al naso se l’è gustata come non ci fosse un domani.
E non solo: ci si è fatto pure una ricca pippa, e l’ha fatta pure a quello che gli sedeva accanto, e pure al prossimo, via via fino all’ultimo della fila che stava lì solo per i popcorn buoni.

I temi trattati sono interessanti (anche se solo parzialmente affrontati, come da manuale Cencelli-Zerocalcare) e molte sono le riuscitissime trasposizioni visive di concetti e sentimenti anche abbastanza complessi (Cesare come una pietruzza che affonda nell’oceano, il faro Sara d’Alessandria), e quindi non si può certo definire brutto… tutt’altro.

E però c’è sempre quel sentito sentimento di dispiacere per un autore che, forse colmo delle sue ansie, sembra sempre non voler prendere di petto le questioni che, seguendo il suo pensiero critico anarco-comunista-straight-edge, dovrebbe invece prendere a sassate sui denti.
Pietose in questo senso appaiono le sue patetiche giustificazioni, tipo sul perché chiama “nazisti” quelli che sono palesemente “fascisti del terzo millennio”.
Li avesse chiamati ratti o figli di puttana o purulenti cancri anali da scorticare con le unghie luride di un australopiteco liberale avrei pure chiuso un occhio, ma un generico nazista, così, spiattellato manco fossimo i Blues Brothers, proprio no.

E Walter Veltroni, svenuto e portato a braccia da due malati d’aids africani, continua ad essere un fottuto traditore.

VOTO:
3 Veltroni

Questo mondo non mi renderà cattivo (2023) voto

Titolo inglese: This World Can’t Tear Me Down
Creatore: Zerocalcare
Durata: 6 episodi da 30 minuti circa

L’estate di Kikujiro (1999)

Masao è un ragazzino che vive con la nonna perché il padre non risulta reperibile e la madre lavora in un’altra città per mantenere il figlio.

All’inizio dell’estate, tra noia e solitudine, Masao scopre per caso una foto della genitrice e decide quindi di andare a trovarla, accompagnato da Kikujiro, il marito poco di buono di una vicina di casa, che lo porterà al centro scommesse, ad ubriacarsi e a tutta una serie di robe che il telefono azzurro levati.

E però, nonostante la profonda differenza caratteriale (o forse la differente fase di crescita) tra i due protagonisti, l’uno irascibile e violento e l’altro silenzioso e triste, il duo troverà una quadra, e nel loro rapporto e nei confronti del mondo ostile che difficilmente accetta i tipi che escono fuori dai canoni convenzionali.

L'estate di Kikujiro (1999) voto

Pellicola molto dura nei temi ma spensierata nei modi che rappresenta quasi un’eccezione nella filmografia di Takeshi Kitano, in genere molto più cupo e pessimista, anche se sempre incline al tema dell’assurdo.

Sviluppato nel più classico dei modi, ovvero il road movie episodico, Kikujiro no natsu è indubbiamente accattivante per il cuor leggero con cui affronta l’abbandono, la crudeltà, l’incomunicabilità, il tradimento e tante altre belle cose, ma proprio per questo, per questa digeribilità ad un pubblico meno avezzo all’asciuttezza giapponese, forse si colloca un pelo sotto altre opere dello stesso Kitano.

Ad ogni modo è sicuramente molto bello, non c’è dubbio; va solo preso per il verso giusto da chi si aspetta un film criminale.

VOTO:
3 piovre e mezza

L'estate di Kikujiro (1999) voto

Titolo originale: 菊次郎の夏 – Kikujirô no natsu
Regia: Takeshi Kitano
Durata: 2 ore e 2 minuti
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The Menu (2022)

Hawthorn è un ristorante di altissimo pregio situato su un’isoletta privata e gestito in maniera più che maniacale da una di queste star della cucina che insozzano il discorso contemporaneo, chef Julian Slowik.

11 ricchi commensali, disposti a sborsare 1250 dollaroni a capoccia per un’esperienza culinaria della madonna, si ritrovano a vivere sulla propria pelle il menu più unico che raro mai concepito da testa pensante, mentre tu che guardi il film passerai il tempo a toccarti le gonadi con maniacale sconsideratezza.

The Menu (2022)

Un bel film, finalmente un bel film.

Dopo aver passato a bestemmiare appresso a filmerda o giustificarmi di fronte a buoni film con trame a cui però mi aggrappavo con tutti i coglioni per il discostamento dai mei gusti archetipici, ecco finalmente una pellicola che per me funziona senza sforzo e che, dal basso della solita critica alla classe dominante un po’ edulcorata e quasi auto-assolutoria nella sua impraticabilità, rimane comunque meglio di qualsiasi liberale del cazzo che vuole spiegarci come il mondo capitalista sia il migliore dei mondi possibili.

Verremo a prenderti.
E piangerai.

VOTO:
4 liberali in lacrime

The Menu (2022) voto

Titolo uzbeco: Menyu
Regia: Mark Mylod
Durata: 1 ora e 47 minuti
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Fantozzi (1975)

Il ragioniere Ugo Fantozzi è un italiano molto piccolo borghese che lavora per una grande ditta petrolchimica parastatale, ha piccolissimi sogni da micro arrivista (la scopatina con la collega, la gita al lago, la promozione tramite leccatona di culo del mega-direttore) ed è talmente instupidito dal falso boom economico che non ne ha minimamente elevato la condizione d’ignorante proletario da non rendersi neanche conto che il suo girare come un criceto sulla ruota della gabbietta è così funzionale e imprescindibile al sistema piramidale che lo schiaccia ogni giorno in fondo al pozzo colmo di merda da smuovere perfino il divino mega direttore galattico nell’unico suo momento di consapevolezza politica.

Fantozzi (1975)

Prima trasposizione cinematografica per il famosissimo personaggio creato da Paolo Villaggio che risente inevitabilmente della natura episodica dei racconti brevi da cui il film è tratto, ma che riesce comunque a ritagliarsi una sua dimensione che si distanza anche dalle sue origine letterarie per approdare su lidi quasi surreali e cartooneschi.

Bravo Villaggio nel creare una macchietta epica e bravissimi i simpatici caratteristi che spingono Fantozzi a destra e manca tra cui ricordiamo l’indimenticabile talpa Filini, l’eterna signorina Silvani e quella canaglia del geometra Calboni che in quest’altro film tentava di sturarsi Alberto Sordi tramite il suo orifizio anale.

Ma le due cose più interessanti che ho imparato oggi sono:

1: Liù Bosisio, dopo aver interpretato i primi due film della serie, decise di allontanarsi dal personaggio di Pina per non venire identificata unicamente come la moglie di Fantozzi; tornerà sui suoi passi solo una volta per SuperFantozzi, film che segnerà anche con la sua ultima apparizione televisiva. Come doppiatrice invece Luisa ha dato vita a Marge Simpsons, Hello Spank e Doraemon!

2: il regista Luciano Salce, dopo due anni di prigionia in un campo di lavoro nazista nel quale gli verranno addirittura estratti alcuni denti d’oro che lo sfigureranno a vita, scrisse sul suo diario “1943-1945: due anni difficili”.

VOTO:
3 Salce

Fantozzi (1975) voto

Titolo: White Collar Blues
Regia: Luciano Salce
Durata: 1 ora e 48 minuti
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Brutti, sporchi e cattivi (1976)

Roma negli anni ’70 era una città gonfia di miseria e menefreghismo e quel poco che la giunta di sinistra a guida comunista riuscì a fare durante i pochi anni al governo della città eterna sono stati solo una goccia nel mare del magna magna istituzionalizzato che Roma rappresenta da praticamente 2000 anni.

E in questo film, sulla collina Monte Ciocci, a pochissimi passi dal Vaticano, a mettere in scena tutto quel carico di dolorosi scappellotti in pieno volto, abbiamo una folta manata di personaggi così borgatari che siamo oltre il neorealismo e andiamo a sondare il terreno del ridicolo e della macchietta.

Tra questi, c’è l’immigrato terrone Giacinto e la sua numerosa famiglia di piedi neri i quali, tutti assieme come nella prigione a cielo aperto chiamata Gaza, vivono in una baracca di mattoni e lamiere condividendo giacigli e sofferenze come neanche durante la repressione guerrafondaia nazista del governo ucraino golpista contro i civili russofoni del Donbass.

Ma Giacinto ha un asso nella manica, un milione di lire, frutto di un premio assicurativo per aver perso un occhio a lavoro, che lui tiene stretto stretto come un buco di culo nelle docce di Rebibbia, mentre moglie, figli e nipoti sognano di fottergli le banconote per soddisfare i loro tanti e irrisolti desideri.

Molto astio.

Brutti, sporchi e cattivi (1976)

Pellicola romanissima e allo stesso tempo quasi un prodotto da esportazione, con tutto quel carico da dodici di personaggi oltre il pasoliniano (un colpo al cuore l’apparizione mariana di Ettore Garofolo, giovane di belle speranze in Mamma Roma e qui ridotto al ritratto di un tricheco col viso striminzito).

Indubbiamente da applausi il coraggio di Nino Manfredi nel ficcare piedi e mani negli acquitrini pisciosi della baraccopoli dove si svolge il film e anche nell’interpretare un personaggio così ripugnante come Giacinto Mazzatella, ma forse la pellicola vale più per la denuncia, purtroppo quasi sterile, fine a sé stessa, che per il valore prettamente filmico.

VOTO:
3 Ettore Garofolo e mezzo

Brutti, sporchi e cattivi (1976) voto

Titolo inglese: Ugly, Dirty and Bad
Regia: Ettore Scola
Durata: 1 ora e 55 minuti
Compralo: https://amzn.to/3T9Mx7e

Relic (2020)

Edna è una signora anziana che comincia a soffrire di demenza senile.

Figlia e nipote, preoccupate e spaventate dai comportamenti prima bizzarri e poi pericolosi della vecchia, cercano di far quadrare i conti facendole visita nella sua casa di legno e muffa.
Ma purtroppo c’è ben poco da fare: bigliettini sparsi per casa con le istruzioni su come comportarsi e un bel po’ di sporcizia e trascuratezza testimoniano la spirale senza ritorno in cui pian piano Edna sta scivolando, tra incubi di strani visitatori notturni e conversazioni con presenze invisibili.

Relic (2020)

Stupendo film dell’orrore che dell’orrore non è.

Compreso da pochi, visti i giudizi del pubblico spesso ingenerosi, e passato un po’ in sordina durante la pandemia da Covid che sembrava doverci travolgere come un fiume in piena e che invece ha fatto quasi un cazzo, questo film australiano molto indipendente riesce a smuovere l’animo dello spettatore grazie alla piccola storia di una donna che sta perdendo la ragione per colpa di una malattia degenerativa che scorre in famiglia e dell’impossibilità di porvi rimedio da parte di chi le sta attorno.

Costruito come film horror, con tutti i classici del genere quali ombre suoni salti improvvisi, e invece tutt’altro sotto la scorza, Relic è per questo anche quasi l’esemplificazione della storia stessa: una realtà molto più dura e indigeribile, nascosta sotto un velo pietoso di ragionevole negatività.

Di più non dirò, per non rovinarlo.
Super consigliato.

VOTO:
4 vecchi

Relic (2020) voto

Titolo brasiliano: Deterioração
Regia: Natalie Erika James
Durata: 1 ora e 29 minuti
Compralo: https://amzn.to/3Rcfuz8

Spiderhead (2022)

Nella prigione di minima sicurezza fisica e massima sicurezza mentale chiamata Spiderhead, l’oligarca americano Steve Abnesti conduce esperimenti farmaceutici su cavie volontarie(?) prese dalle normali carceri statunitensi.

In cambio di padelle in rame, videogiochi e una certa libertà di movimento, insomma in cambio del normale modello carcerario norvegese, questi prigionieri sono sottoposti ad iniezioni di sostanze sperimentali che ne alterano il comportamento togliendo loro personalità e libero arbitrio.

Dopo aver visto sesso, merda e sangue, elementi apparentemente imprenscindibili in una produzione senza dignità, i personaggi sveleranno misteri che non cambiano una virgola morale ed indirizzo narrativo.

Spiderhead (2022)

Filmetto fantascientifico che ha speso la metà del budget per gli attori e l’altra metà per il cabinato di Joust e che è quindi rimasto a secco di spiccioli per pagare uno sceneggiatore che desse una direzione emotiva ad una storia che in realtà poteva anche sparare qualche colpetto e che invece si affloscia su sé stessa senza giungere né ad una disamina sociale e né ad una conclusione catartica per un pubblico oltre i 15 anni.

Un peccato, perché nonostante sia volgarmente scopiazzato da roba molto meglio come Ex Machina e Black Mirror, poteva dare un qualcosina di più sul piano dei dilemmi morali, dell’inutilità sistema carcerario e sullo strapotere degli oligarchi occidentali sulla popolazione inerme.
E invece nisba.

VOTO:
2 oligarchi e mezzo

Spiderhead (2022) voto

Titolo argentino: La cabeza de la araña
Regia: Joseph Kosinski
Durata: 1 ora e 46 minuti

Birdemic (2010)

Rod è un ragazzo con le idee chiare: lavorare il meno possibile per una compagnia high-tech e poi fuggire col malloppo una volta che la stessa verrà venduta ad uno dei pochi monopoli oligarchici su chi si regge lo strapotere americano.

Sticazzi se i lavoratori verranno licenziati per “ridondanza”, sticazzi se l’innovazione che l’azienda apportava verrà cancellata dal gigante compratore, sticazzi se si tratta di pure manovre speculative che non si basano su un’economia reale e quindi non producono vera ricchezza nel tessuto sociale.
L’importante qui è  usare la macchina ibrida, sennò l’ambiente va a farsi fottere.

Birdemic (2010)

Incredibile filmetto di serie Z che il regista ha finanziato col suo lavoro vero (quale sarà?), non ottenendo i permessi dovuti e sottopagando attori e squadra. Insomma, un capolavoro.

Potrei parlare degli orrendi effetti speciali usciti direttamente da powerpoint o le legnose interpretazioni, ma quello che mi è saltato all’occhio invece è la connessione con Max Landis, figlio di John, il regista di Un lupo mannaro americano a Londra.

Si dà il caso infatti che la giovane modella protagonista del film sia stata in passato sentimentalmente legata al giovane sceneggiatore e che, sull’onda del #meeToo, se ne sia uscita nel 2019 con un tweet nel quale riportava di vessazioni orrende e inumane subite per sua mano.

E non è l’unica: le vittime uscite allo scoperto sono almeno 8 e tutte hanno raccontato di come Max sia un pezzo di merda che si diverte nel controllare le sue prede sessuali, si ecciti nel vederle soffrire e sia in generale un maniaco sessuale con una predilezione per la violenza e l’umiliazione.

Ma perché dargli contro?
Lo sappiamo tutti che un uomo di successo si misura non con le dimensione del suo cazzo, ma con la veemenza di come agita il suo batacchio sulla scrivania del potere, diminuendo i salari e tagliandosi le tasse che verrebbero usate per migliorare la società.
Gli stronzi pensano che chi ha di più dovrebbe dare di più, ma sono dei poveri illusi; perché chi ha di più te lo ficcherà più in fondo e tu sorriderai tra le lacrime, servo del sistema.

VOTO:
1 del sistema

Birdemic (2010) voto

Titolo completo: Birdemic: Shock and Terror
Regia: James Nguyen
Durata: 1 ora e 45 minuti
Compralo: https://amzn.to/3OLiZLk

Night Stalker: caccia a un serial killer (2021)

Ricardo Leyva Muñoz Ramirez è stato un americano figlio d’immigrati messicani che si è distinto per la brutalità dei suoi crimini e la totale mancanza d’empatia verso le sue vittime.

Una dozzina d’omicidi, altrettanti tentati e un’abbondante spolverata di violenze sessuali contro donne, vecchie e bambine sono la lista della spesa per questo personaggio che nei favolosi anni ’80 californiani venne soprannominato “The Night Stalker”, il molestatore notturno, dagli avidi e spietati mezzi di comunicazione che, assetati di fluidi corporei come liceali del Mamiani di Roma, crearono l’ennesimo mostro da sbattere in prima vagina pagina.

Night Stalker: caccia a un serial killer (2021)

 

Serie televisiva banalotta e senza verve che tenta di spaventarti con gli efferati crimini di un poveraccio brutalizzato dalla vita al punto tale di sviluppare una personalità schizoide e allucinata.

Più volte associato al satanismo e stronzate simili per la sua bambinesca voglia di stupire con pentagrammi dipinti sulle mani, Richard Ramirez è stato piuttosto l’esempio perfetto di cosa costruisce una società ingiusta e violenta come quella americana: padre immigrato e alcolizzato, violenze domestiche, difficoltà economiche e cugino berretto verde dell’esercito americano che perpetrò impunemente crimini di guerra contro i poveri vietnamiti che al confronto i cosiddetti “crimini di Bucha” in Ucraina fanno ridere i polli.

Patetici i poliziotti incompetenti che non sono riusciti a fare un cazzo per 13 mesi fino a quando sono stati i cittadini di un quartiere povero di Los Angeles a prendere l’assassino.
Perché il popolo mai sarà sconfitto.

VOTO:
2 liceali del Mamiani assetati di fluidi corporei

Night Stalker: caccia a un serial killer (2021) voto

Titolo originale: Night Stalker: The Hunt For a Serial Killer
Regia: Tiller Russell e James Carroll
Durata: 4 episodi da 45 minuti