Mitch ha due amici di merda che lo scorrazzano da un capo all’altro del mondo in cerca di quella botta d’adrenalina che li faccia sentire meno coglioni nell’aver abbracciato mani e piedi il sistema liberal-capitalista.
Perché loro non odiano il lunedì, ma il capitalismo, e apparentemente l’unica maniera di porvi rimedio non è prendere per i capelli i padroni e portarli in piazza tra due ali di gente urlante i peggiori epiteti, ma invece val bene una vacanza di 2 settimane a fare i cowboy e guidare una mandria di vacche dal Nuovo Messico al Colorado.
Ovviamente le cose non andranno lisce, ma è giusto così perché è il conflitto che fa crescere i personaggi nelle storie. Non è giusto invece quando il conflitto implica prendere per i capelli i padroni e portarli in piazza tra due ali di gente urlante i peggiori epiteti; in quel caso devi stare zitto e berti tutto il piscio che ti tirano in faccia.
Famosa commedia primi anni ’90 che oggi fa un po’ rabbrividire per l’ingenuo maschilismo e il velato razzismo che traspare, nonostante le intenzioni fossero proprio l’opposto: tipo che ci sono due cowboy neri, ma parlano 2 volte e non hanno alcuna funzione se non sparire a metà film per volontà loro, e tipo che uno dei due amici si scopa la commessa ventenne del negozio che gestisce, ma solo perché la moglie è cattiva e non gliela dà.
Capito donne? Siete voi il problema.
Da sottolineare l’apparizione cosmica per Volodymyr Palahniuk, conosciuto ai più come Jack Palance, attore famoso per pellicole western che grazie a questo film vinse un meritato e tradivo oscar come attore non protagonista.
VOTO: 2 Volodymyr e mezzo
Titolo originale: City Slickers Regia: Ron Underwood Durata: 1 ora e 53 minuti Compralo: https://amzn.to/3PKpLoB
Alla fine del 19esimo secolo gli Stati Uniti d’America erano ancora un paese in fieri colmo di mistero e timore; un paese molto difficile da vivere e per questo popolato per buona parte dai due estremi dell’essere umano: i poveri determinati cristi che tentavano, contro ogni pronostico, di costruire qualcosa dai sassi e la polvere a disposizione e chi invece no.
Qui, a differenza dei classici film manichei coi buoni e i cattivi, vengono tralasciati gli uomini qualunque a ruoli marginali e macchiettistici (come il pianista del saloon) e sono invece narrate vicende che mettono in contrapposizione persone prese solo dal gruppo dei poveri determinati cristi: briganti nomadi che vanno avanti sgozzando viandanti appisolati sotto il Sole rovente della steppa centro americana, baffuti sceriffi ligi al dovere che cenano con una misera zuppa bollita sopra la stufa dell’ufficio, cowboy dall’egocentrismo romantico che rischiano la vita per pure formalità, infermiere stracolme di un femminismo applicato e non professato da immaginari scranni, miserabili vecchi vedovi che in mancanza di una pensione di cittadinanza sono costretti a lavorare e rischiare la pelle per due soldi e primordiali clan di bestiali nativi americani pronti a tutto pur di sopravvivere tra sterpaglia e canyons.
Ognuno di questi personaggi si ritroverà sullo stesso immaginario sentiero e dovrà adattare andamento e postura per continuare la propria camminata nella valle della morte che chiamiamo vita.
Meraviglioso western che riesce a mischiare orrore, dramma e commedia in un cocktail dal forte sapore artistico senza però risultare stucchevole.
Questa piccola e appassionante storia del rapimento di una donzella da parte di un gruppo di misteriosi trogloditi e dell’immediato tentativo di salvataggio da parte di quattro uomini della frontiera americana assume le connotazioni dell’epica grazie ad estenuanti trottate per le sterminate praterie americane, splendidamente sottolineate dalle classiche panoramiche in cinemascope (qui giustificatissimo, non come in Perfetti sconosciuti) e da una colonna musicale che spazia dallo sperimentalismo alla The Shining fino alla simpatica canzone sui titoli di coda.
Tra interpretazioni ai massimi livelli e una tensione narrativa spessa come l’Appennino Abruzzese, la cosa migliore del film risulta essere però l’encomiabile perseveranza nel dipingere personaggi realistici e pieni di difetti, come tutti noi, che si trovano loro malgrado alle prese con avvenimenti più grandi di loro e, di riffa e di raffa, navigando tra oscure acque rigate di sangue, tentano l’impossibile facendolo apparire semplicemente come logico.
In tre parole: capolavoro parzialmente incompreso.
VOTO: 5 bone tomahawk
Titolo giapponese: Tomahawk: Gunmen vs. Cannibal Tribe Regia: S. Craig Zahler Anno: 2015 Durata: 132 minuti
Quirt Evans, an all round bad guy, is nursed back to health and sought after by Penelope Worth, a Quaker girl. He eventually finds himself having to choose between his world and the world Penelope lives in.
Director: James Edward Grant Writer: James Edward Grant Stars: John Wayne, Gail Russell, Harry Carey
Titolo italiano: L’ultima conquista Regia: James Edward Grant Anno: 1947 Durata: 100 minuti Compralo: http://amzn.to/2g2psHn
Nella campagna del Kansas le famiglie sono composte da madre meccanico burbero, madre casalinga stupidina, figlia carina troietta e figlio adolescente incompreso.
A rompere i coglioni di questo quadretto stereotipato dell’America rurale con le negre che suonano l’organo della chiesa e lo sceriffo trippone tabagista che non risolve mai un cazzo, arrivano 8 palle di pelo mordaci come una truppa di mangiacazzi spaziali vagamente reminiscenti dei cannibali del Congo a cui il sergente Hartman voleva accorciare loro il cazzo.
La cittadina si difende come può, mentre il pubblico si gratta copiosamente i coglioni.
Non c’è niente di peggio di un filmetto di serie B che non si prende abbastanza per il culo e questa è (più o meno) la pecca maggiore de ‘sto western rip-off di Gremlins in salsa fantascientifica.
Se difatti tralasciamo i raffazzonati ma efficaci effetti speciali dei fratelli Chiodo (gli stessi di Killer Klowns from Outer Space) e una generale buona tenuta narrativa, quello che resta sono molti sbadigli e un generale senso di vertigine pruriginosa che parte dalle nocchie papocchie che si spaccano sulle facce da cazzo dei protagonisti e finisce sulla punta della lingua mentre si srotola feconda su di una bestemmia a caso tra quelle più in voga al momento.
Dalla regia mi dicono che questo mese tira parecchio “porcaccio Saulo”.
VOTO: 3 Sauli
Titolo originale: Critters Regia: Stephen Herek Anno: 1986 Durata: 82 minuti
Nel futuristico 1983 i ricchi possono farsi una vacanza da sogno nel parco divertimenti di Delos pagando $1000 al giorno. Per questa cifra da capogiro, quello che viene offerto è presto detto: 3 piccoli mondi del passato (il west, il medioevo e Roma antica) ricreati con l’ausilio di un po’ di carpentieri rumeni e tanti androidi ultra realistici.
I ricchi paganti possono quindi vivere avventure da romanzo (o da film) all’interno di questa sorta di grandi set televisivi, chi chiavando cortigiane e chi duellando con un pistolero pelato dall’aria torva; la scelta è potenzialmente infinita, come infinite sono le possibilità che qualcosa vada storto.
Prima opera fimica per lo scrittore di Jurassic Park e piccola perla fantascientifica dal costo ragionevolmente basso, fattore che sembra non aver influito minimamente sull’impatto emozionale della storia, anzi. Questa semplice vicenda di virus informatici che fanno impazzire i robot di un villaggio turistico per Paperoni annoiati prende bene sin dalle prime inquadrature a bordo dell’hovercraft e prosegue su buoni livelli fino alle pazze scintille di un finale non eccezionale ma oggettivamente inevitabile.
Nonostante molti moderni luddisti abbiano identificato e continuino ad identificarlo come un film sui pericoli della tecnologia, Crichton è stato sempre abbastanza chiaro sul messaggio anti-corporation dell’opera.
VOTO: 4 Yul
Titolo originale: Westworld Regia: Michael Crichton Anno: 1973 Durata: 88 minuti
Uno straniero misterioso arriva nella cittadina di Lago che si trova, guarda un po’, sulle rive di un placido lago nel mezzo di un desolato altipiano centro americano. Visto come una bella rogna dalle 4 anime dannate che popolano quello sperduto sputo di dio sulla Terra, lo straniero viene però ben presto ingaggiato come killer a pagamento nel vano tentativo di difendersi da 3 fuorilegge appena rilasciati di prigione. 3 fuorilegge che un annetto prima avevano frustato a morte il maresciallo cittadino sotto gli occhi indolenti dei suoi concittadini e per questo dannati in punto di morte dallo stesso a soffrire tra le fiamme dell’inferno.
E un inferno è quello che li aspetta.
Interessante esordio alla regia per l’inespressivo attore di Sergio Leone e piacevolissimo western molto anarchico, sia nella trama che nella messa in scena, questo Il girovago degli altipiani mi è proprio piaciuto.
Se non fosse che il povero Clint ha dato di matto e da ormai parecchi anni tifa sfegatatamente per i peggiori repubblicani della storia politica americana facendo sospettare o una demenza senile galoppante o un fascismo vecchia scuola, uno potrebbe anche godere appieno del senso di giustizia un po’ arcaica, ma comunque condivisibile, del personaggio principale e della sua profonda e diretta empatia coi vari reietti della società statunitense quali nani e messicani.
Come al solito evitate il doppiaggio italiano che in questo caso è riuscito addirittura a cambiare l’identità dello straniero: dal fantasma del maresciallo ucciso, al fratello (mai visto e sentito) dello stesso.
VOTO: 4 fantasmi
Titolo originale: High Plains Drifter Regia: Clint Eastwood Anno: 1973 Durata: 105 minuti
Un cacciatore di taglie con due baffi degni degli Asburgo sta trasportando una pericolosa assassina per le lande innevate del Wyoming verso Red Rock, una piccola cittadina di frontiera dove la stronza verrà impiccata in mezzo ad una folla giubilante assetata di arcaica giustizia.
Sfortunatamente per il baffone, una tormenta blocca loro e altri 6 personaggi alquanto loschi in una stazione per diligenze nel mezzo del nulla centro-americano mentre il generale inverno bussa forte alla porta dei loro cuori di ghiaccio.
ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi
Girato in glorioso 70mm e visto da me in pietoso 30x16cm, The Hateful Eight è stata comunque un’esperienza filmica con pochi eguali, specialmente da qualche anno a questa parte.
Sarà la lunghezza dell’opera (degna dei cari vecchi Cleopatra e Via col vento), sarà la suggestiva musica di Morricone (con 3 pezzi inediti da La Cosa… dajece), sarà quel cazzo che te pare, quest’ottavo film tarantiniano spacca di brutto le teste di cazzo perbeniste che ancora si portano le mani alla bocca se vedono il sangue sullo schermo però poi votano pezzi di merda fascio-liberali al governo e non tirano un fiato sulle indescrivibili sofferenze inflitte a 5 sesti del genere umano.
Incoerenti dei miei stivali!
Tarantino invece spinge sull’acceleratore dell’orrore politico e sbatte in faccia allo spettatore medio tutto quel razzismo che gran parte degli Stati Uniti si porta ancora beatamente in cuore, e lo fa con una serie di personaggi uno più sgradevole dell’altro: dai romantici razzisti del sud fino all’ex soldato nero dell’unione che si diverte ad uccidere i bianchi dopo aver ficcato loro in bocca il suo cazzo nero e caldo (testuali parole).
Costruito come una partita a scacchi giocata da amanti frettolosi e proposto come una partita a flipper sotto stupefacenti, The Hateful Eight trova il suo stato di grazia nei soliti eccentrici dialoghi tarantiniani fiatati in un’atmosfera densa di tensione che troverà la giusta e telefonata risoluzione catartica nel caro e vecchio massacro scespiriano tipo Le Iene.
e io ci vomito sul Bardo
Molto divertente e pieno di sorprese, nonostante la convenzionalità del film derivata a sua volta dalla convenzionalità del genere, I rabbiosi 8 giunge nelle sale americane in un periodo di grande clamore attorno alle numerose uccisioni di neri da parte della polizia bianca razzista e la conseguente impunità garantita da una giustizia razzista bianca. A tal proposito, Tarantino ha sfilato per le strade di New York assieme ai familiari di alcune delle vittime di questi linciaggi da ventunesimo secolo un paio di mesi prima dell’uscita del film e per tutta risposta molti sindacati di polizia americani hanno chiamato per un boicottaggio della pellicola; fortunatamente l’opera ha incassato bene nonostante questo patetico tentativo dei “cani dello stato” e alcune critiche idiote su un presunto maschilismo che non stanno né in cielo né in terra visto che Quentin è famoso per scrivere personaggi femminili forti, indipendenti e immuni alla classica formula hollywoodiana della donna oggetto inventata dalla femminista Laura Mulvey, vero e proprio idolo di intere generazioni di donne intellettualmente miopi il cui unico metro di giudizio è il cazzo che gli manca (tanto per citare anche la critica Freudiana di Lacan da cui quella femminista prende piede).
Se invece voi siete come me e cioè avete un cervello pensante e indipendente, allora lasciatevi trasportare per quest’ennesimo giro sull’ottovolante del più interessante regista americano in circolazione.
VOTO: 5 femministe miopi
Titolo originale: The Hateful Eight Regia: Quentin Tarantino Anno: 2015 Durata: 167 minuti (digitale), 187 minuti (70 mm) Compralo: https://amzn.to/3qZzRYv
Lo sceriffo Will Kane della cittadina Hadleyville in New Mexico si è appena sposato con una giovane quacchera (un tipo di cristiano con una condotta di vita molto più vicina al cristianesimo originario rispetto ai cattolici o ai protestanti) e sta per partire per la sua meritata luna di miele lasciando dietro di sé una cittadina oramai sgombra dal crimine dopo anni di duro lavoro.
Sfortunatamente la stessa mattina viene a sapere che Frank Miller, un bandito messo da lui in galera cinque anni prima (e no, non c’entra nulla col famoso fumettista fascista americano) sta per arrivare con il treno delle 12 (da cui il titolo) e ha tutte le intenzioni di vendicarsi per gli anni spesi in gattabuia. Kane quindi ha solo un’ora e mezza per radunare i rinforzi tra la popolazione locale e prepararsi all’inevitabile sparatoria… ma non ha fatto i conti con il radicato quieto vivere e la naturale ritrosia nel prendere parte ad un mortale conflitto a fuoco da parte degli esseri umani.
Lasciato quindi solo dalla moglie e dai concittadini a fronteggiare il temibile Miller, il vecchio sceriffo conta i minuti che lo separano dalla morte.
…
Considerato da molti uno dei più bei film mai girati nella storia del cinema, High Noon ha l’indubbio pregio di dare una svolta inaspettata al genere Western: privo quasi totalmente di scene d’azione e con una forte concentrazione sui conflitti emozionali e morali tra gli abitanti di una cittadina di merda nel deserto nord americano, questa pellicola fa del dialogo e dell’introspezione i suo punti forte.
Sfortunatamente però High Noon non si distanzia poi molto dal pensiero intellettuale e politico americano e non si nota alcuna pretesa comunista o progressista nella trama, checché ne dica molta critica con i prosciutti sugli occhi. Tutto il presunto sottotesto anti-maccartista è totalmente ridicolo e privo del benché minimo fondamento: il protagonista è un classico eroe americano che difende l’ordine costituito con una pistola, poco cervello e senza l’aiuto dei suoi pavidi concittadini, un eroe solitario che alla fine prova un certo disgusto per il governo e le istituzioni da lui tanto difese e che l’hanno lasciato solo nel mezzo del pericolo. Questo è un pensiero molto vicino alle dottrine repubblicane originali (Bush e compagnia bella sono tutto meno che repubblicani) e quest’enfasi molto forte sull’individuo ha spinto la critica sovietica dell’epoca nel bollarlo (giustamente) come “un’esaltazione dell’Individualismo”.
Si ricorda che l’Individualismo è praticamente l’antitesi del Comunismo.
Dove sono le liste nere? Dove sono le cacce alle streghe? Dov’è il cittadino comune che viene ingiustamente accusato dal governo centrale per il suo libero pensiero? Ovviamente la risposta è che tutto questo non c’è per il semplice motivo che High Noon c’entra poco o niente con il Maccartismo o il Comunismo; questo è altresì un altro dei classici film americani sull’eroe solitario che combatte il male mentre il governo si gratta la pancia.
Kane è giusto un pelo più progressista rispetto ai buzzurri stile John Wayne, ma rimane pur sempre uno sceriffo con la pistola facile. Certo, all’appello mancano i proverbiali indiani nella parte dei cattivi, ma è ben magra consolazione se si pensa che questo film è stato uno dei preferiti da molto presidenti americani tra cui spiccano Eisenhower, Reagan e Clinton, quest’ultimo con il record mondiale di ben 17 proiezioni alla Casa Bianca…
Tristezza.
VOTO: 3 fan di High Noon
Titolo originale: High Noon Regia: Fred Zinnemann Anno: 1952 Durata: 85 minuti Compralo: https://amzn.to/3FcLUDs
E’ il famigerato old west e nella “fantastica” cittadina di Redemption si tiene un ricco torneo annuale di pistolettate con protagonisti briganti, buoni a nulla e sbruffoni dall’inespressa voglia di palcoscenico. A capo della comunità c’è John Herod, un criminale con alle spalle numerose rapine e assassinii, il quale non riesce a vivere una vita felice da pensionato (quale è) e sente quindi il bisogno impellente di duellare con tutto e tutti alla disperata ricerca di una sonora lezione. A dargli le dovute tottò sul culetto arriva la pistolera Ellen la quale ha un conto in sospeso con Herod da circa 30 anni e cioè da quando la costrinse ad assistere alla morte del padre sceriffo. Nel calderone dei duellanti ci sono anche Kid, il figlio illeggittimo di Herod che vuole solo il rispetto del padre, e Cort, un ex collaboratore di Herod fattosi predicatore.
tutto questo accade nel mezzo del più completo isolamento culturale
Dispiace molto, soprattutto perché, tolte alcune inevitabili cadute (per lo più dovute all’egocentrismo della produttrice Sharon) e un finale molto telefonato e alquanto affrettato nella sua conclusione catartica, The Quick and the Dead era ed è un godibilissimo alternativo ai classici di Leone ed un’abile prova registica del sempre forte Sam Raimi. Splendido omaggio al genere “spaghetti western”, The Quick and the Dead (il vivo e il morto) è un carrozzone sul quale sono montati in ordine sparso Sam Raimi (regista), Sharon Stone (protagonista e co-produttrice), Gene Hackman (John Herod), Russel Crowe (Cort) e un giovane Leonardo DiCaprio (The Kid) il quale ha tirato fuori una delle migliori interpretazioni dell’intero film; purtroppo per loro però Pronti a morire ha “floppato” tristemente e s’è visto superare e doppiare al botteghino da Billy Madison con Adam Sandler.
VOTO: 4 Adam Sandler
Titolo originale: The Quick and the Dead Regia: Sam Raimi Anno: 1995 Durata: 107 minuti
Caleb è un burino campagnolo dell’entroterra nord-americano; una notte vede una fregna moscia mangiarsi un gelato per la strada principale del suo miserrimo paesello di burini campagnoli e decide bene di farle la corte alla maniera dei burini campagnoli dell’entroterra, cioè avvicinarsi in silenzio come un maniaco e fare un paio di allusioni sessuali da due soldi. Normalmente tale tecnica è da evitare, ma siccome sono nell’entroterra nord-americano, lo stile funziona e lei si convince a fare un giro in macchina con lui. Nonostante lei sia una cock teaser, tutto sembra andare per il verso giusto e il burino ci rimedia pure una paccata (con morso sul collo) prima che la sconosciuta fugga via mentre il gallo canta, manco fosse San Pietro. Ora…indovinate un po’ qual è la sorpresina?
Sì, Mae, la ragazza a cui piace leccare i gelati in piena notte nell’entroterra nord-americano, è una vampira e ora anche Caleb fa parte del club. Dopo incomprensioni varie col gruppo di vampiri stronzi amici di Mae e un giro per le strade deserte di questo entroterra di merda, Caleb si ribellerà alla sua condizione di creatura della notte e confermerà quanto l’amore, cioè quella serie di reazioni chimiche utili a far ficcare i cazzi nelle fiche, sia sempre la cosa più importante per gli sceneggiatori cani di Hollywood. Firmato dall’ex moglie di James Cameron, famosa per aver cominciato la sua carriera comprando e vendendo case con profitto nelle periferie povere di New York anni ’70 in società con il musicista Philip Glass, questo pastrocchio senza capo né coda che cerca maldestramente di fondere western e vampiri come se non ci fosse un domani ha la colpa di essere innanzitutto noioso, che è poi la cosa peggiore in un film d’intrattenimento quale è questo. Con interpretazioni che oscillano tra il dilettantesco (Caleb) e l’esagerato (Bill Paxton), Near Dark, nonostante un’interessantissima colonna sonora dei Tangerine Dream ed alcune bellissime inquadrature col crepuscolo, rompe i coglioni ben presto a chi come me non sopporta gli sbruffoni codardi come i vampiri del film, buoni a nulla che girovagano di paesino in paesino mettendo a ferro e fuoco (letteralmente) tutto quello che si para loro davanti. Se c’è una cosa che è un punto chiave della narrativa vampiresca è l’intelligenza e la straordinara educazione di queste creature, ma questo film sembra coscientemente voler sputare in faccia a tutto ciò; il buon senso invece suggerisce che se uno ha vissuto 4 o 500 anni, deve pur aver avuto la possibilità di imparare qualcosa ed accrescere quindi la sua consapevolezza del mondo e delle cose. Qui invece pare che il burino campagnolo di cui sopra sia quello con più sale in zucca e il meno egocentrico, il che è logicamente impossibile.
Mi duole dirlo, ma a questo punto sono meglio i saccenti vampiri nichilisti di Only Lovers Left Alive… e dio solo sa quanto mi ha fatto girare i coglioni quel film.
Apparentemente quello che la Bigelow non ha capito è la differenza tra Nichilismo e ignoranza: la prima è una filosofia ben strutturata che rifiuta con presa di coscienza i dogmi e le regole societarie in quanto catene da cui liberarsi per un innalzamento del genere umano tutto (e non solo dell’uomo ariano, capito ignoranti nazisti?); l’ignoranza invece è quella cosa che abbiamo tutti quando nasciamo e che pian piano ci scrolliamo di dosso ogni qual volta interagiamo con i fenomeni della natura e con le persone, cercando di capire il perché delle cose.
Certo, tutto questo risulta difficile se passi il tempo a vendere case per una manciata di pezzi di carta.
VOTO: 2 Franco Sensi
Titolo originale: Near Dark Regia: Kathryn Bigelow Anno: 1987 Durata: 94 minuti
Un camaleonte domestico si ritrova in una cittadina da far west in mezzo al deserto del Nevada; una cittadina che sta vivendo un periodo nero per la cronica mancanza d’acqua.
Diventato sceriffo grazie al solito malinteso da slapstick comedy, Rango si imbarca nella titanica impresa di svelare il teatrino di bugie dietro il quale si nasconde più di un insospettabile concittadino.
Al giorno d’oggi fare un film originale è un’impresa ardua: molto è stato detto, troppo è stato girato, e gli “autori” ricorrono sempre più all’arma del remake per racimolare nuovi incassi. Poi c’è chi, invece di fare una copia spudorata, prende a destra e a manca tanti piccoli elementi e li chiama citazioni (che fa fico), ci schiaffa poi dentro molto humour, una spruzzata di indubbia bravura tecnica e un velo di caro déjà vu che rassicura un pubblico sempre più spaventato delle idee originali e porta la sudata pagnotta a casa. Ecco, questo è Rango.
Primo film d’animazione computerizzata per la ILM (Industrial Light and Magic, quelli di Star Wars) e prima esperienza nel genere per il regista Gore Verbinski (quello di Pirati dei Caraibi), questa simpatica commedia per ragazzi un po’ cresciuti è una riuscita accozzaglia di idee prese da una miriade di altri film più famosi: Fear and Loathing in Las Vegas, Il buono il brutto e il cattivo, Mad Max 2, 2001: a Space Odyssey, Jurassic Park, Apocalypse Now… Insomma: un elenco infinito che comincia dall’intrigo principale, pesantemente rubato a Chinatown, e finisce col protagonista stesso, un misto tra Captain Sparrow e Marty McFly, doppiato da un Johnny Depp in gran forma.
Tutto questo non toglie quanto la pellicola sia gradevolissima e, dal punto di vista tecnico, un piccolo capolavoro; resta però l’amaro in bocca per la creatività col bavaglio e ci si chiede quanta approvazione sia frutto del film in sé e quanto delle opere a cui fa lo sberleffo.
VOTO: 3 Johnny Depp ubriachi e mezzo
Titolo originale: Rango Regia: Gore Verbinski Anno: 2011 Durata: 107 minuti
Seth MacFarlane è famoso per aver creato Family guy, la copia dei Simpsons. Dopo quindi un assolutamente immeritato successo televisivo è passato al cinema e ha deliziato il palato di merda dei boccaloni con quella cacata di Ted, il film con l’orsetto volgare. Dopo due anni, eccolo che torna con un’altra scoreggia verbosa presentata da film comico.
Nella fattispecie: il povero Albert Stark è un pecoraio dell’Arizona, Far West. E già subito partiamo male: il titolo è infatti sbagliato perché il West sarebbe appropriato per stati quali l’Indiana o il Tennessee; l’Arizona, essendo quasi affacciata sull’oceano Pacifico, è Far.
Ecco, io dico: per uno che si professa intelligente e sofisticato, Seth mi sembra invece un saputello dozzinale il cui più importante fardello culturale consiste in citazionismi sterili e battute volgari/avvilenti che non conducono a nulla.
Sai qual è un altro modo di morire nel West, eh Seth? Se ti piazzo un sasso in bocca, poi ti faccio inginocchiare, ti ci do un calcio forte forte così da farti partire i denti, poi mentre li raccogli io prendo una tanica di benzina e te la verso pian piano sulla schiena e poi ti ci butto un fiammifero mentre canto la sigla del mio cartone animato preferito, Piccola Bianca Sibert.
Amica dolce, dolce Sibert che avventure abbiamo noi in tutto il mondo tu sei unica lo sai
Amica dolce, dolce Sibert che dolcezza gli occhi tuoi lo so che in fondo non ci lasceremo mai
Titolo originale: A million ways to die in the West Regia: Seth MacFarlane Anno: 2014 Durata: 116 minuti