Un sogno chiamato Florida (2017)

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Ai margini di quello che un tempo fu chiamato The Florida Project, ovvero un piccolo prototipo di comunità volta a sperimentare un sistema di vita futuristico presto riconvertito in classico parco di divertimenti a seguito della morte dell’alcolista e semi-fascista fondatore Walt Disney e quindi conosciuta oggi come Walt Disney World, vive l’emarginata e bistrattata popolazione tagliata fuori dai giochi di potere di quel “Sistema America” ampiamente amato dai fascio-liberali come Walt Disney.

Una serie infinita di sfaccettature d’umanità che si dipana fragilmente ai margini di un’esistenza crudele e che viene perentoriamente schiacciata sotto una massa informe d’ingiustificate accuse di pelandronite volte solamente a nascondere e ribaltare il tavolo accusatorio dai padroni ai proletari i quali da sempre vengono dileggiati anche e soprattutto nella loro unica e fondamentale cifra identificativa, ovvero i figli a cui non riescono a provvedere a sufficienza, non per mancanza d’amore ma per mancanza di solidarietà.

E in questo film abbiamo infatti una giovane madre single dai modi sgarbati, dalla natura lasciva e dalla cultura raso-terra che è riuscita ad affermare se stessa unicamente coi suoi vistosi tatuaggi e (ahimè) scaricando al mondo una bambina che ama profondamente perché è l’unica amica che ha.
Una bambina, Moonee, dalla vivacità sorprendente e dalla sfacciataggine ancora più assurda che passa le calde giornate estive bighellondando assieme ad altri indomiti pargoli dentro e fuori il motel per poveracci dove risiedono chiamato ironicamente Magic Kingdom, come il parco centrale a Disney World.
Un’assonanza, questa tra il mondo magico e fiabesco della multinazionale americana e la dura realtà del loro quotidiano, che si ripercuote per tutto il film: Moonee quindi visita le stanze abbandonate di un motel nelle vicinanze come fosse la casa dei fantasmi o va a fare una passeggiata tra le mucche come si trovasse ad un safari in Animal Kingdom, tutto ciò passando davanti coloratissimi e cartooneschi negozi che risultano la copia saturata di quelli presenti dentro il famoso parco di divertimenti.

E sotto quest’ottica di realtà speculare va chiaramente vissuto lo stilisticamente stridente finale, primo ed ultimo assaggio di un mondo visto con gli occhi dei bambini, poveri.

Un sogno chiamato Florida (2017)

C’è poco da girarci attorno: questo film è un capolavoro neorealista visto con uno sguardo indulgente e compassionevole, senza per questo essere pietistico o assolutorio; uno sguardo che poi è perfettamente rispecchiato nel bel personaggio guida intepretato da Willem Dafoe.

Come da tradizione neorealista, gli attori  (molti dei quali presi dalla strada) si esprimono con una naturalezza e una capacità scenica da far invidia ai pastrocchioni hollywoodiani tanto elogiati da pubblico e critica e conducono agilmente per mano lo spettatore dentro una storia appassionante e a tratti struggente.
Qui non c’è spazio per metodi stanislavski o insegnanti d’accento, qui non c’è Luca Marinelli che fa il romanaccio accentuando l’accento ‘ci sua, qui non c’è niente dell’irrealtà della macchina cinematografica, semplicemente perché non serve; qui invece siamo di fronte alla dura realtà del sogno americano infranto contro il muro dell’individualismo indifferente sopra la cui carcassa scintillante danzano e giocano i figli dei proletari attirati dai colori sgargianti della carrozzeria distrutta.

E allo stesso tempo la pellicola straborda di coloratissime e deformate inquadrature dal basso verso l’alto che rispecchiano pienamente la visione che un bambino avrebbe di un’estate nella florida Florida; un’estate che purtroppo la piccola Moonee non dimenticarà facilmente.

Il cinema nostrano ha prodotto qualcosa di simile qualche tempo fa: La pivellina, non male.

VOTO:
4 Stanislavski e mezzo

Un sogno chiamato Florida (2017) voto

Titolo originale: The Florida Project
Regia: Sean Baker
Anno: 2017
Durata: 111 minuti

I film sono visti rigorosamente in lingua originale.
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Autore: Federico Del Monte

I was Born, I Live, I will Die

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