Riassumere in due parole il contenuto di una serie televisiva non è sempre una cosa scontata e a volte mi trovo col difficile compito di dover bilanciare l’elencazione degli elementi narrativi con la mania (tutta moderna) di non dover spoilerare delle trame che definire buffe sarebbe un complimento; fortunatamente questa volta viene in soccorso la serie stessa con il famosissimo incipit che accompagnava ogni singolo cristo d’episodio:
Spazio, ultima frontiera.
Eccovi i viaggi dell’astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale, diretta all’esplorazione di nuovi mondi, alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà… fino ad arrivare laddove nessun uomo è mai giunto prima.
A questo breve ma pregno riassunto si può aggiungere la variegata composizione dell’affiatato equipaggio della nave stellare USS Enterprise: il capitano James Tiberius Kirk, un uomo dal parrucchino prominente che non vede l’ora di tirare fuori la sua ferrea morale e il suo fascino sessuale (non necessariamente in quest’ordine); il comandante Spock, un alieno del pianeta Vulcano privo dell’emotività umana che agisce solo ed unicamente seguendo la logica (e la paga mensile dell’esercito); il dottor Leonard “Bones” McCoy, un medico incapace di usare un defibrillatore ma sempre pronto a spalmare di silicone un’ameba aliena ferita; l’ingegnere Montgomery “Scotty” Scott, l’integerrimo ripara motori che parla come se avesse sempre 400 lire in bocca che non vuole farsi scappare; il luogotenente Sulu, il gayo asiatico alla cloche direzionale dell’Enterprise; l’ufficiale alle comunicazioni Uhura, probabilmente la prima nera ad entrare in un telefilm con un ruolo che non fosse la serva che ramazza la stanza e sicuramente la prima a mostrare in prima serata le chiappe che spuntano dalla mini gonna; e poi un numero imprecisato di gente vestita di sfavillanti colori che ad ogni puntata vengono giù come mosche senza che a nessuno freghi una beneamata minchia.
Recensire la serie TV culto per eccellenza non è cosa facile; primo perché a difenderla a spada tratta ci sono i più ostinati bambinadulti che la Terra abbia mai visto e secondo perché il tutto va chiaramente contestualizzato nella sua epoca… che non è tra 200 anni, ma nei puritani e ignoranti fine anni ’60 pre rivoluzione cultural-giovanile.
Anni durante i quali destava un certo sconcerto vedere uomini e donne di tutte le razze convivere e lavorare pacificamente senza un esplicito ordine gerarchico dettato dal colore della pelle o dal tipo di genitali tra le gambe.
Chiaramente qualche battuta verso il gentil sesso e i suoi stereotipi scappava ancora e le gonne erano più corte della distanza tra il cuore e il buco del culo dei nani, ma guardando la serie si può respirare una stranissima aria di parità che cozzava tremendamente con la segregazione razziale che regnava ancora in certi stati americani e la concezione che la donna fosse buona solo per 3 cose: lavare, stirare e chiavare (non necessariamente in quest’ordine).
Ogni episodio è a sé stante e autoconclusivo, nonostante la serie segua un generale senso unico volto all’esplorazione delle parti sconosciute della nostra galassia, e la trama tende ad essere più o meno sempre la stessa, una volta che la si stringe all’osso: l’Enterprise giunge in un luogo nuovo dove è avvenuto o sta per avvenire un fatto misterioso che può mettere a repentaglio la vita dell’equipaggio, di un pianeta o addirittura dell’intero universo (non necessariamente in quest’ordine) e sarà compito di uno o più membri della ciurma risolvere brillantemente l’intreccio interferendo il meno possibile col naturale corso degli eventi, una direttiva imperativa per la Federazione dei pianeti uniti.
Certo, va anche detto che lungo i 30 episodi della prima stagione Kirk e i suoi uomini vengono a contatto con più roba strana che se fossero in un bordello di Amburgo: rigurgiti cerebrali, papponi stellari, androidi, semidei pacifisti, antimateria, bambini centenari, penitenziari col lavaggio del cervello, alter ego diabolici, rettiliani, viaggi del tempo, computer che governano interi pianeti, superuomini e una serie più e meno infelice di costumi alieni che lasciano col sorriso beffardo in bocca.
Ma la cosa più triste che tocca segnalare è però la parabola fracassata di Jeffrey Hunter, l’attore che interpretò il capitano Christopher Pike nell’episodio pilota “The Cage” prima che il capitano Kirk entrasse in scena.
Subito dopo aver rifiutato di continuare a lavorare in Star Trek per darsi completamente al cinema e finito in relativa miseria con la definitiva chiusura dello studio system hollywoodiano, Jeffrey si prestò alle produzioni cinematografiche a basso costo oltre oceano trovando l’incipit della sua dipartita terrena durante le riprese in terra iberica di ¡Viva América! quando un finestrino di un automobile gli scoppiò in faccia procurandogli una commozione cerebrale e un disallineamento di una vertebra, mai realmente guariti.
Il 26 maggio 1969, cinque mesi dopo l’incidente, mentre si trovava in cima alle scale della sua casa californiana, il povero Jeffrey soffrì poi un’emorragia cerebrale che lo fece piombare giù per gli scalini, sbattendo prima su una fioriera e poi violentemente contro la ringhiera, fratturandosi irrimediabilmente il cranio.
Il capitano Christopher Pike uscì quindi di scena la mattina seguente all’età di 42 anni, proprio quando la serie originale di Star Trek giungeva alla conclusione della sua terza e ultima stagione lasciando i fan di tutto il mondo col fiato sospeso, le mani nei capelli e le mutande calate (non necessariamente in quest’ordine).
VOTO:
3 cloche e mezza
Titolo retronimo: Star Trek: The Original Series
Creatore: Gene Roddenberry
Stagione: prima
Anno: 1966
Durata: 30 episodi da 50 minuti circa
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