Stefan Zweig è stato uno scrittore austriaco vissuto a cavallo del secolo breve; specializzato in novelle dal sapore sempre più cupo e introspettivo (da non dimenticare che fu amico di Freud e di Schnitzler, quello dell’onirica novella Doppio Sogno da cui poi Kubrick ha tratto Eyes Wide Shut), dicevo, Zweig, con l’avvento del fottutissimo nazismo, fu costretto ad emigrare con la sua seconda moglie, prima in Inghilterra e poi in Brasile.
Il 23 febbraio 1942 poi, sentendo sempre il più il peso di un’intolleranza nera e ignorante che si espandeva nella sua amata Europa, lui che fu internazionalista e pacifista, decise di togliersi la vita assieme alla sua compagna con un’overdose di barbiturici.
Ora, cosa c’entra la storia di un intellettuale di cento anni fa morto per il peso sul cuore di un mondo che cambiava troppo in fretta e troppo male?
Semplice, Wes Anderson dice che si è ispirato alle sue novelle e al suo straordinario nobile e quieto carattere per scrivere il suo ultimo bellissimo film, The Grand Budapest Hotel.
Il film è una deliziosa matrioska narrativa: si parte con una giovane ragazza che va a visitare il monumento cittadino ad un defunto scrittore “Tesoro della nazione”; all’ombra del busto commemorativo, comincia a leggere uno dei suoi libri di memorie aprendo il primo flashback: un balzo temporale al 1968 quando il “Tesoro nazionale” (il nome non viene mai rivelato) si trovò ospite di un fatiscente (ma un tempo grandioso) hotel nella fantomatica repubblica alpina di Zubrowka.
Durante un bagno termale vediamo il Tesoro fare la conoscenza del direttore e padrone dell’albergo, tale Zero Moustafa, il quale, presolo in simpatia, lo invita a cena per raccontargli il celeberrimo passato dell’ormai decadente struttura alberghiera ed in particolare di come strinse un’amicizia fraterna con il precedente concierge nel lontano 1932.
Altro flashback e ci troviamo nella parte centrale della storia: M. Gustave, il concierge di cui sopra, amante di molteplici ricche vecchie nobili ospiti dell’albergo, riceve in eredità da una di esse un preziosissimo quadro, una patacca chiamata “Ragazzo con la mela”, il quale viene poi ironicamente sostituito in parete da Gustav con un bellissimo Schiele, genio incompreso dai personaggi del film, nel momento in cui si trova costretto a rubare la suddetta patacca per l’opposizione dei parenti della deceduta alla cessione della stessa (cristo, l’ipotassi).
Avvenuto il furto, si scatena una pazza rincorsa tra Gustave e il suo assistente Zero (poi padrone del Grand Budapest nel 1968) e gli avidi parenti, capeggiati dal figlio baffuto e allampanato Dmitri (interpretato da Adrien Brody) e da un silenzioso spietato assassino assoldato dalla famiglia (Willem Dafoe).
Tra corse in macchina, sciate per montagne innevate, evasioni dal carcere ed incontri con personaggi folli, i due alla fine riusciranno a salvare la pelle, stroncare i piani diabolici dei parenti serpenti e assicurarsi infine in eredità il Grand Budapest Hotel, segretamente posseduto dalla vedova amante di Gustave.
Wes Anderson ha ormai raggiunto una purezza stilistica senza pari: dai movimenti di macchina ai colori, dalla messa in scena al montaggio, dalle caratterizzazioni dei personaggi alle situazioni assurde, tutto è praticamente perfetto.
Alcuni storcono il naso e dicono che Anderson si ripete, e forse è vero, ma se la qualità è questa, chi cazzo se ne frega.
E poi non sento mai nessuno dire che Picasso faceva troppi quadri cubisti…
VOTO:
5 ragazzi con la mela
Titolo originale: The Grand Budapest Hotel
Regia: Wes Anderson
Anno: 2014
Durata: 100 minuti
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