Tento di spiegare la trama, subito dopo la visione e senza aver letto niente (e quindi senza aiutini):
In un’America contemporanea esiste una droga che permette l’aumento di capacità psichico-empatica degli umani; questa droga è estratta dalle secrezioni di una specifica pianta tropicale alle cui radici hanno soggiornato dei particolari vermi che sono fuggiti dalla carcassa in decomposizione di un maiale lì piazzato e nel quale era stato impiantato in vita il suddetto verme prendendolo in prestito dal suo precendente ospite, un essere umano.
Ci siete ancora?
Bene, il film segue in particolare le vicende di uno questi umani, una donna nella quale era stato introdotto a forza uno di questi vermi, e che si ritrova in contatto psichico con un altro di questi “sopravvissuti”, un uomo (interpretato dal regista) col quale cresce una storia d’amore apparentemente predestinata e alla quale non possono porre volontà propria.
Quando i loro corrispettivi animali, e cioè i maiali nei quali è finito il verme da loro precedentemente ospitato e con i quali si era sviluppato un particolare legame mentale, dicevo quando questi porci vengono uccisi da un misterioso fattore e gettati nel fiume nel quale rilasceranno poi il liquido fertilizzante per le piante tropicali, ecco che allora scatta nei due protagonisti quella spinta a ritrovare la strada verso casa, verso la sanità mentale, verso la fattoria dove vengono allevati questi sfortunati maiali.
E una volta giunti lì, i due amanti dannati dal destino decidono di compiere l’unico gesto possibile in un mondo dicotomico e interconnesso come quello nel quale vivono, ovvero spezzare la catena che li tiene prigionieri, spezzare quel cordone ombelicale psichico che li teneva in contatto con l’altro da sé, spezzare il ciclo perpetuo di vita e morte che li vede inconsapevoli anelli di congiunzione.
Questo è uno di quei film altamente criptici, girati in maniera talmente non convenzionale che ti senti più volte pervaso da un senso di impotenza intellettiva: è come se ad ogni immagine che si sovrappone al tutto, ogni stacco, ogni nota musicale splendidamente suonata, venga aggiunto un prezioso pezzo al puzzle narrativo in disperata ricerca di un decifratore e ne venga allo stesso tempo tolto un altro realizzando così una sorta di macchina onirica perpetua dalla quale è impossibile uscire se non con una seconda o terza o quarta visione, proprio come il ciclo vitale del “verme droghiere”, vero e proprio trait d’union del film.
Scritto, prodotto, diretto, girato, montato e musicato da Shane Carruth, lo stesso genio che ci ha dato Primer, questo Upstream Color è un ricettacolo di idee fresche e coraggiose che pongono la pellicola su di un meritato podio riservato solo ai veri film sperimentali; in più tratti simile per approccio stilistico e strutturale a Tree of Life, altro film elogiato e vilipeso a iosa, quest’opera cinematografica concepita fuori dal sistema hollywodiano tende a lasciare più dubbi che a dare risposte all’annoso quesito sul significato delle cose e di conseguenza della vita.
D’altra parte Upstream Color resta comunque una pellicola eccezionale: non mi era mai successo d’incappare in un film nel quale venisse tracciata un’analogia per la vita umana talmente fuori dagli schemi quale quella di un maiale in una fattoria in attesa di essere sacrificato per un bene maggiore.
VOTO:
5 alberi della vita
Titolo originale: Upstream Color
Regia: Shane Carruth
Anno: 2013
Durata: 96 minuti